Costabile, poeta degli abbandoni

Uno sguardo sul poeta contemporaneo che si addossò fino all’estremo le sofferenze della gente della sua terra, la Calabria
Costabile

«Non torneremo/su questo altopiano beato/quando s’inaugura/la fiera delle stelle./L’alba si leva/in frusciar di colombe:/e tu sei partita./Che pena ascoltare/il fischio del trenino/alla pianura». Questo brano da Via degli ulivi, riprodotto in gigantografia sulle pareti della caffetteria dell’Università “Magna Grecia” a Germaneto di Catanzaro, aveva attirato la mia attenzione su un poeta contemporaneo a me sconosciuto: Franco Costabile, nato nel 1924 nel piccolo centro calabrese di Sambiase (ora una delle circoscrizioni di Lamezia Terme).

Costabile può ben definirsi poeta degli abbandoni. Il primo, sofferto ancora bambino, è quello del padre Michelangelo, che insofferente di un ambiente ristretto come Sambiase, si dedica all’insegnamento in Tunisia, lasciando la moglie Concetta incinta di Franco. Nel 1933, lei lo raggiunge col bambino e il suocero per convincerlo (inutilmente!) a tornare al paese; né da parte sua acconsente a rimanere con lui. Il trauma del distacco segnerà profondamente Franco, acuito dalle prese in giro dei suoi coetanei che gli affibbiano il nomignolo di “Sfax”, il porto tunisino che lui nomina spesso. Rispecchia questo stato d’animo il suo primo componimento poetico d’adolescente: Vana attesa, dedicato nel 1939 al padre lontano.

Dopo la maturità classica e una breve infatuazione fascista, Costabile si iscrive alla Facoltà di Lettere prima a Messina, e dal 1946 a Roma, dove completerà gli studi e inizierà l’insegnamento. A disagio nella grande città, la sua rimane la condizione di un esule. Importante, tuttavia, è il soggiorno romano specie per il rapporto stretto con Giuseppe Ungaretti, suo professore di Letteratura moderna e contemporanea, un vero padre per i suoi allievi. Ungaretti si affeziona a Franco, nel quale quasi rivede il figlio che gli è morto in Brasile, e a sua volta il giovane sambiasino trova nel famoso poeta una compensazione all’assenza della figura paterna. Dopo la laurea (tesi in Paleografia), a partire dal 1950 Costabile insegna in vari licei e istituti tecnici della capitale, e allo stesso tempo – per sbarcare il lunario – scrive articoli e poesie per diverse riviste, collaborando anche con l’Enciclopedia Cattolica e quella dello Spettacolo.

Sempre nel 1950, pubblica a sue spese con una editrice di Siena la prima raccolta poetica, Via degli ulivi: uno smilzo libretto dove si respira un clima di speranza, di impegno e di partecipazione. Ne fa arrivare una copia al padre, che gli risponde con freddezza: è per Costabile un nuovo rifiuto che si ripercuoterà nella sua visione del mondo e, di conseguenza, nel suo universo poetico. Socialmente più impegnata nell’esprimere pregi e contraddizioni dell’amata terra calabra è la seconda raccolta, edita a Roma nel 1961 da Canesi. S’intitola La rosa nel bicchiere dalla lirica che si conclude con questi versi: «Un arancio/il tuo cuore,/succo d’aurora./Calabria,/rosa nel bicchiere», dove il fiore tagliato ma che continua a vivere nell’acqua rappresenta la bellezza ferita che spande il suo profumo come un presagio di speranza.

Nel 1953 Costabile sposa una sua ex allieva, Mariuccia Armau, dalla quale avrà due figlie: Olivia e Giordana. Purtroppo anche il matrimonio sarà per lui causa di nuovi distacchi: anni dopo, infatti, vinto un concorso per un impiego all’Accademia di Brera, la moglie parte con le bambine per Milano, città dove Franco, a causa degli impegni scolastici e del sodalizio con artisti e letterati a Roma, non intende trasferirsi. A questo nuovo abbandono familiare si aggiunge nel 1964 la morte dell’adorata madre, stroncata da un male incurabile.

Il poeta, personalità introversa, non regge a questa ulteriore prova e appena quarantenne, oppresso anche dal superlavoro, si toglie la vita col gas il 14 aprile 1965 nel suo appartamento romano di Montesacro. Sulla sua tomba nel cimitero di Sambiase si legge questo epitaffio composto da Ungaretti: «”Con questo cuore troppo cantastorie”/dicevi ponendo una rosa nel bicchiere/ e la rosa s’è spenta poco a poco/come il tuo cuore, si è spenta per cantare/una storia tragica per sempre».

Sì, una storia tragica dominata dalla solitudine. Uomo dalla fede inquieta, Costabile cercava Dio dentro l’uomo concreto appartenente alle classi più disagiate. Così profondamente legato al malessere sociale della sua gente, negli anni drammatici che hanno visto una massiccia diaspora di calabresi in cerca di futuro altrove, da esserne quasi ossessionato. Emblematici questi versi: «Signore,/io non voglio impararti/come un altro mestiere./So di che lievito è il pane dell’uomo./E voglio cercarti in silenzio e in amore/dove matura il grano».

Nella sua opera la critica ha ravvisato una originale commistione tra le suggestioni e l’essenzialità dell’ermetismo, mutuato dal modello Ungaretti, e la sensibilità per le vicende umane e sociali propria del neorealismo. E proprio il coinvolgimento emotivo verso le altrui sofferenze di cui lui si faceva carico, culminate in quelle della madre, lo aveva indotto a quel gesto suicida.

Tra le stradine di Sambiase rintraccio in via Porchio n. 24 la casa dove il poeta ha trascorso la prima giovinezza con la madre e il nonno; nel vicolo accanto, il cortile da lui cantato nel 1951: «Mio cortile, cucine che ogni sera/io ritorno a vedere illuminate/ed hanno un fumo bianco una parola,/ mio cortile di anni senza amore/ troppo soli al ricordo della casa/ al declivio del colle fra gli uccelli,/ mio cortile di sempre che non sai/ di quale pena può morire un uomo/ in un’angusta camera d’affitto/ con ritratti di estranei dentro gli occhi/ e l’attesa dell’alba per fuggire;/ mio cortile! Fra le tue pietre ormai/ giace la sera, la mia sera lunga/ e da te mai divisa; né più il cuore/ un nome tenta o un viale d’amore./ Ho perduto la terra ed ogni sole/ quando un ramo fioriva ed era mio […]».

Nel nucleo antico del suo paese natale l’Associazione “Via degli ulivi”, nata per valorizzare l’opera di Costabile, ha curato un itinerario poetico rappresentato da altre liriche incise su piastrelle di terracotta. Sulla facciata di una casa di fronte al duomo, diciotto riportano il suo Canto dei nuovi emigranti, intriso di pessimismo e ribellione per la rassegnazione con cui la sua gente subiva ingiustizie secolari.

Del lungo testo col quale egli sembra congedarsi dalla vita e dalla poesia riporto solo qualche verso: «[…] Ce ne andiamo/con dieci centimetri/di terra secca sotto le scarpe/con mani dure con rabbia con niente./[…] Senza/sentire più/il nome Calabria/il nome della disperazione./[…] Restano le donne/consumate da nove a nove mesi/con le macchie/della denutrizione/della fame./Siamo / l’odore/di cipolla/che rinnova/le viscere d’Europa./[…] Addio,/terra./Salutiamoci,/è ora».

Costabile, poeta degli abbandoni. Unica voce tra queste case e stradine di spopolato silenzio, la Poesia.

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