Cosmopolis

Cronenberg presenta a Cannes un film arduo e affascinante: un viaggio nell’oltretomba infernale del dio denaro dove Dio, cose, umanità, potere viene appiattito dal nichilismo. Quasi un grido disperato
Locandina di Cosmopolis

Proiettato venerdì al festival di Cannes e subito in sala, l’ultimo lavoro di Cronenberg è arduo, affascinante, molto parlato. Il regista sembra preso dai dialoghi del romanzo di Don Delillo, da cui è tratto il film, e non risparmia lunghe (forse troppe) riflessioni esistenzial-filsofiche in una trama claustrofobica, quasi un'azione teatrale vera e propria.

Il multimiliardario  Eric Packer (Robert Pattinson), ventottenne squalo della finanza newyorchese, è algido e impenetrabile come la limousine candida entro cui vive. E’ un automa del denaro, senza sentimenti. Decide di andare dal barbiere della sua infanzia per “rifarsi il taglio”. Ma deve fare i conti con una città in stato d’assedio per l’arrivo del presidente, tra cortei contestatori, incontri con una prostituita, dialoghi con la moglie con cui il rapporto già langue e infine le ultime, davvero memorabili scene con il suo attentatore, all’interno di una squallida stanza. Un viaggio nell’oltretomba infernale del dio denaro che l’ ha sedotto ma poi lo sta abbandonando a causa di una speculazione sbagliata.

Viaggio alla riscoperta forse anche di sé stesso, come la lacrima che faticosamente gli scende sul viso, con dolore. Anzi, con il bisogno del dolore, dentro un vita “metallica” come la sua auto, dentro cui mangia, beve, fa sesso, dorme, fa i controlli medici, lavora… Si trafiggerà lui stesso ad una mano, per ritrovarsi vivo in una vita che di umano sembra avere più nulla, perché lui è diventato un puro automa dell’economia mondiale.

Cronenberg descrive la fine apocalittica di questo “spettro che si aggira per il mondo”, dice citando Marx, cioè la civiltà economica che distrugge l’uomo. Nei lunghi campi-controcampi in cui si filma il viaggio verso il nulla – perché questa è una civiltà che produce il Nulla -, il giovane, attraverso incontri reali o visionari, diventa il simbolo di un enigma che ci attraversa: è questo l’uomo, che la civiltà attuale sta producendo? Questa la civiltà dove tutto è piano, livellato: Dio, cose, umanità, potere, tutto appiattito dal nichilismo che ci governa. Dove si vada a finire, lo dice l’ultima scena, sospesa nell’interrogativo: il giovane verrà o no ucciso? La finale è una sola: l’ignoto ci attende.

Dolorosamente difficile, ampia, bisognosa di venir rivista, quest’opera fortemente autoriale – chissà se incontrerà il favore del grande pubblico abituato ai blockbuster americani o alle commediole nostrane – è un grido disperato all’umanità perché non precipiti più a fondo, seguendo l’illusione di una economia distruttiva e disumanizzante.

L’ex vampiro Pattinson regge bene la parte del giovane algido, dalle scarse espressioni “umane”, il cui taglio dei capelli è reale e metaforico insieme. Lo circondano fior d’attori come Juliette Binoche, Sarah Gadon, Paul Giamatti e Mathieu Amalric. Di un colore manieristico la fotografia, ora sporca ora lucida di Peter Suschitzky. Inquietante la musica di Howard Shore.
Questo è Cosmopolis, città e cosmo, ossia tutto ciò che ci circonda e in cui siamo, secondo Cronenberg.

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