Cosmè e Francesco la pittura bizzarra

Dimenticare la delicata Primavera del Botticelli. Questa, di Cosmè Tura, oggi a Londra, siede su di un trono di delfini ramati, veste tessuti metallici, dalle linee aspre, quasi provoca con quella aria infastidita. Viene da un mondo distaccato dalla terra, è una delle Muse già nello studiolo del Duca ferrarese a Belfiore. Si sente l’eco del Mantegna, ma qui il tono si fa più spinoso, l’azzurro del cielo è irreale. Pare una delle bellezze algide del nostro tempo. A Londra, la tavola centrale del Polittico Roverella, vede una Madonna su un trono altissimo, verticalizzata come una epifania. Colori duri, la Vergine assorta non ci guarda, il Bambino dorme e gli angeli musici suonano quasi per conto loro. La scena, al solito, si svolge sotto una architettura classica, siamo nel 1474, ma dell’equilibrio classico c’è ben poco. È un insieme di solitudini unificate dall’uso dissonante delle tinte, che a stento si richiamano, e dal simbolismo di conchiglie perle e oggetti marini che forzano la usuale compostezza del racconto. Nella cimasa della pala, poi, una Pietà agghiacciante e urlata domina con colori che sanno di terra calpestata e marcita, terra tra pianura e marina. Dalla allucinazione della Primavera, alla estraneità della Vergine, all’espressionismo della Pietà sono tre registri sentimentali dove la fantasia si fonde col reale in un modo fortemente, per noi, provocatorio. Lo è per davvero. La Pietà veneziana del Museo Correr dà la misura di come a Ferrara si interpreti il fatto spirituale. La Madonna piange e tiene in braccio un Cristo bambino- adulto, ossuto e brutto, alle spalle un paese roccioso con gente estraniata, tinte terrose, luce gelida. Un dolore aguzzo, vero, che fa brutte le persone. Disperate, almeno per un momento. Cosmè ha imparato da Mantegna, si diceva, ma anche dai nordici, soprattutto dalla sensibilità padana per ciò che si vede, ed anche per ciò che non si vede e che le nebbie nascondono. Realtà e mistero a volte non sono così lontane. Sono loro a rendere naturale lo scambio fra ciò che esiste e ciò che è allucinazione, tra le cose come appaiono e come potrebbero essere. Cosa sono infatti le due tele del duomo di Ferrara, l’Annunciazione compunta ma fredda nei bagliori dell’oro, e il san Giorgio che ammazza il drago, mentre il cavallo impazzito nitrisce e la principessa fugge, pazza pure lei di terrore, con le vesti e l’anima arricciate in pieghe ritorte e dure, se non evocazioni allucinate di una fiaba terribile o di un racconto misterioso? Pisanello e i gotici sono presenti nel ricordo, ma la favola è crudele, il mistero difficile. E poi quei toni bronzei, il plasticismo risentito, la luce metallica, da luna fredda d’inverno. Eppure, stanno bene accostate insieme, sono in dialogo: sembra impossibile, ma è vero. Forse è Ferrara, lucida tra nebbie marine e padane, né Veneto né Emilia completamente, crea- tura a sé che assorbe tutto e si rinchiude in quella bellezza fredda di vedute di De Chirico o di film di Antonioni, presenti e inafferrabili al tempo stesso, a creare dell’uomo e delle cose una visione tanto particolare, di difficile comunicazione in cui tuttavia gli opposti affascinano: tra stravaganza di decorazioni marine, astrologie complesse, sentimenti duri è un mondo minerale, si direbbe fantascientifico, che si esprime. Con un evidente senso di superiorità naturale verso chiunque lo guardi. Francesco del Cossa è collega del Tura, pittore di corte sino alla morte nel 1495. Più malleabile, aperto al gusto del raccontare, si presenta però con i due santi Pietro e Battista (Milano, Brera) simili a statue metalliche: colori squillanti, le vesti dalle pieghe acute ed un paesaggio retrostante petroso e affollato di gente indifferente a loro,e a noi. Il Battista è un giovane scarno e rugoso, diffidente, si direbbe. Fratello di altri ritratti di Francesco, persone orgogliose che ti guardano con aria di sfida. Forse è l’atmosfera della corte ferrarese, colta e aperta a molte suggestioni, a rendere i suoi pittori sperimentatori al punto da apparire per noi anche bizzarri? Ma Cossa in fondo è un narratore e sulle pareti del Palazzo di Schifanoia, un nome che è un programma, sotto la supervisione di Tura, affresca mesi e stagioni, celebrando il suo signore, Borso d’Este. È qui che Ferrara rivela, a sorpresa, l’altro lato del suo carattere estroso. Una gran gioia di vivere e di sapere che i colori belli diffondono in raffigurazioni astrologiche, scene mitologiche, ritratti festosi della vita cittadina. Nel mese di maggio è un fiorire di amori nel giardino segreto di tradizione gotica, mentre Venere sul cocchio trascinato da cigni incontra il guerriero Marte. La natura e gli uomini sono ridenti. Cossa lascia andare un pennello giulivo, non sembra lui. Anche d’inverno i colori grigi dipingono una natura laboriosa e amica, mentre nella fucina di Vulcano mostri con un solo occhio lavorano le armi. Il mito serve a Cossa, e agli Estensi, a ricordare che la vita è amore e cultura, ma pure mestiere delle armi. C’è ancora una volta il sovrapporsi o meglio l’alternarsi del gusto dell’orrido, dell’arcigno – i mostri appunto -, a quello più sereno del vivere attivo. È questa la linea che risulta vincente a fine Quattrocento, quando Giambellino esegue il Festino degli dei, a cui seguiranno le poesie mitologiche e i ritratti calzanti di Tiziano e Dosso. In quel momento Ferrara imboccherà un rinascimento più veneto che proprio. Fino ad un certo punto. L’anima bizzarra, lunare dell’ambiente, i suoi umori per il misterico e il favolistico durano, se la Circe di Dosso, oggi nella romana Galleria Borghese, o l’Apollo musico, per quanto smaglianti di colore, creano intorno una aria di incantamento, di separazione tra noi e loro, che li rende affascinanti, ma lontani. Il mondo fantastico e surreale di Cosmè e, in parte, di Francesco, la loro cultura che fa da cerniera fra le varie Europe – la gotica la francese la rinascimentale -, non è morta. Il linguaggio che a noi appare eccentrico in verità si conserva, come un fiume sotterraneo nel tempo, per riemergere come qualcosa di siderale: lontana eco di un tempo passato ma anche voce di una città – di una civiltà – sospesa fra acque e pianori che ci arriva tuttora, con un qualcosa fra il troppo detto e l’incomunicabile. Questa è modernità. De Chirico e Antonioni insegnano. Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este. Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 23/9 al 6/1/2008 (catalogo Ferrara Arte Editore)

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