Così li aiutamo a tornare bambini

Era una chokora, una figlia della spazzatura. Una di quelle che la società rifiutava e che con i rifiuti della società, per anni, ha provato a vivere, cercando un senso in fondo ad un immondezzaio. Adesso ha quindici anni, si chiama Shikò e se le chiedi perché sia finita a tre anni sui marciapiedi, ti risponde di non aver scelto lei la strada, mi ci sono trovata. È cresciuta nei vicoli polverosi di Kibera, la più popolosa baraccopoli di Nairobi: un enorme formicaio dove diventare adulti è più che una sfida, molto più che una scommessa. Tra fogne a cielo aperto e discariche da setacciare ogni giorno per trovare uno scarto con cui riempire lo stomaco e uno straccio con cui vestirsi, trentamila bambini ogni 24 ore muoiono per cose banali, malanni che nell’altro mondo (quello a otto ore di volo e due di fuso orario da questo inferno metropolitano) sono roba da pediatra della mutua. In Kenya 79 bimbi su 1000 muoiono neonati, entro i dodici mesi di vita, 120 quando non hanno neanche raggiunto i cinque anni. Molti di essi finiscono in strada e ad un’età sempre più bassa mi spiega padre Kizito Sesana, l’angelo bianco degli slums, un missionario comboniano che da vent’anni vive a Nairobi. Un uomo nato a Lecco, nella ricca Brianza, e che, dopo aver lavorato qualche anno alla Moto Guzzi, ha lasciato tutto per dedicare la sua vita a questi piccoli. La famiglia tradizionale, quella sulla quale per secoli si è basata tutta la società africana – aggiunge – si è sfaldata. I nonni e gli zii rimangono al villaggio e le madri, arrivate in città con i figli, vengono abbandonate da mariti assenti, violenti e spesso ubriachi. Queste donne provano ad assicurare un futuro ai loro piccoli, ma si ritrovano sole e così abbandonano le loro creature che finiscono in strada. È quello che è accaduto anche a Shikò, che adesso però coniuga i verbi al futuro e può immaginare quello che verrà. Voglio imparare e crescere, sposarmi e avere dei figli dice oggi. Per lei sognare è una conquista, non è gratis. Ridargli una famiglia Shikò vive con altre ragazze nella Casa di Anita, una delle strutture che padre Kizito ha creato assieme alla Ong Amani. Un centro di prima accoglienza dove alcune giovani coppie si sono rese disponibili per fare da genitori non solo ai propri figli naturali, ma anche ad alcune bambine recuperate dalla strada. È in strutture come queste che ogni giorno, come Pinocchio, questi bambini si liberano della corazza di legno che li ha bloccati e d’improvviso tornano a fare capriole sui prati dell’infanzia. Per giorni, a volte per mesi – mi racconta commosso padre Kizito -, portano una maschera. Si mostrano duri, violenti, insofferenti, rifiutano ogni aiuto, perché la vita in strada li ha resi adulti, indipendenti. Rifiutano qualsiasi contatto con i grandi che li hanno abbandonati, sfruttati, violentati. Poi un giorno si svegliano e come per incanto tornano ad essere quello che sono: bambini che hanno voglia di giocare, di apprendere e di vivere sereni. In tutto il mondo i bimbi che hanno per casa il marciapiede sono centocinquanta milioni, tre volte la popolazione italiana. Una nazione di ragazzini che subisce violenze quotidiane, si prostituisce, campa di espedienti, di elemosina e furti e che per quattro soldi sniffa colla e benzina. Per strada – osserva padre Kizito – la droga supplisce a tutto ciò che manca: affetto, rapporti umani, la famiglia, il calore di un ambiente accogliente. Sballarsi aiuta a non sentire i morsi della fame, intontisce, permette di dormire qualche ora, prima di alzarsi di nuovo alla ricerca ossessiva del cibo. Negli anni Novanta quello degli street children sembrava un fenomeno soprattutto latino-americano, con l’enorme piaga dei meninos de rua e dei niños de la calle. Una piaga sociale che ha innescato operazioni di vera e propria pulizia etnica. La Commissione d’inchiesta nata in Brasile per far luce su questa emergenza ha appurato che solo in quel Paese, negli ultimi cinque anni, gli squadroni della morte finanziati da commercianti, industriali o trafficanti di droga, hanno assassinato oltre 16 mila bambini che vivevano in strada. E tantissimi sono stati torturati e violentati dalla polizia dopo l’arresto per futili motivi. Adesso il fenomeno si è allargato. Questi bimbi vivono, spesso muoiono, negli slums di Nairobi e nelle favelas di Città del Messico, nelle fogne di Bucarest e nei sobborghi di Manila, nei vicoli di Karachi e nelle piazze di San Pietroburgo. Senza dimenticare i piccoli mendicanti che incontriamo anche ai semafori delle nostre città. Secondo il recente rapporto dell’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, in Italia sono circa 50 mila i bambini, soprattutto rom tra i 2 e i 12 anni, costretti a vivere di accattonaggio in strada, per un giro d’affari stimato intorno ai 200 milioni. Il 60 per cento di loro, secondo l’Opera nomadi, non ha mai messo piede a scuola o non la frequenta assiduamente. Anche al Cairo sono tanti i bambini di strada, almeno 150 mila – mi dice Suzanne Mubarak, la first lady egiziana, moglie del presidente Hosni, che incontro a Palermo dove si trova per ricevere un premio per il suo impegno a sostegno dei diritti delle donne e dei bambini. Il nostro piano nazionale – mi spiega – è di lavorare con le famiglie più povere e numerose, quelle più a rischio. Cerchiamo di riportare i bambini dalla strada nelle loro famiglie d’origine alle quali diamo incentivi economici. Dopo di che, studiamo la situazione familiare e attiviamo per i genitori delle forme di microcredito che permettano a quella famiglia di sostenere il minore che, come prima cosa, dovrà essere riportato a scuola. La strategia della Mubarak ruota tutta attorno ad un principio: se l’inferno di questi bambini è l’essere senza famiglia, per loro non potrà esserci salvezza senza restituirli ai genitori. Abbiamo anche noi delle residenze diurne dove i bambini che vengono dalla strada possono avere un pasto caldo, per poi tornare a sera sui marciapiedi – racconta la Mubarak -; ma io personalmente non sono d’accordo con questo sistema. Molti dicono: è sempre meglio che tenerli in strada. È vero. Ma io credo che dobbiamo fare di tutto perché i bambini, a sera, dormano nei loro letti, con la propria famiglia. Invertire la marcia Non è una pura teoria. Invertire la marcia si può. Alle volte per dare una sterzata alla propria vita basta poco. Anche le tavole di un palcoscenico. Per Marco Baliani, attore e regista di successo, il teatro è tutto. È la vita. Una passione che con la collaborazione di Amref e del Teatro delle Briciole di Parma, ha condiviso con i ragazzi di strada di Nairobi, diventati applauditi protagonisti di due spetta- coli di successo: Pinocchio nero e L’amore buono. Basta guardarli mentre fanno le prove generali dello spettacolo al Vascello di Roma, per capire quanto la relazione tra questi ragazzi strappati alla strada e l’attore abbia fatto passi da gigante. Marco Baliani, come padre Kizito, è uno degli adulti di cui questi ragazzi provano a fidarsi. Il teatro è stato capace di salvare la mia vita mi confida Dexter, uno degli attori del musical L’amore buono che denuncia la piaga dell’Aids. Prima non facevo nulla di costruttivo, ora invece faccio qualcosa di importante. Sono concentrato su un obiettivo e questo ha salvato me ma coinvolge anche tanti altri ragazzi, ci dà la speranza che si possa cambiare. Bisogna affascinarli, questa è la sfida – confida Baliani -: sedurre vuol dire proprio questo, portare fuori. Portarli via dalla strada è quello che vogliamo. Per farlo bisogna sporcarsi le mani, farsi uno di loro. Non puoi chiedergli di fare i buffoni se non lo fai tu per primo. E pian piano li porti a capire che anche loro possono affascinare . Conquistare l’applauso di un pubblico e l’approvazione degli amici sono iniezioni di fiducia, prove che infondono coraggio, quello che serve per impossessarsi di nuovo della propria vita. Con questi ragazzi, Baliani ha riscoperto che il teatro può essere anche uno strumento di riscatto sociale, la rampa di lancio verso un futuro diverso. D’altronde – osserva Baliani – per mettere una maschera tu devi essere qualcuno. Non puoi interpretare un altro se non hai anche tu una identità. Per un uomo questa scoperta è importante, per un ragazzo di strada è tutto. È il segno di essere qualcuno, di essere ancora vivo. Di essere. Ridare dignità ad un popolo di ragazzi già adulti, insegnare un arte che può diventare un lavoro è la missione anche di Miloud Oukili. È un clown, far ridere è il suo mestiere. Con il naso rosso e la parrucca gialla, nel 1992, a soli 23 anni, arriva alla stazione di Bucarest. Va in Romania per svolgere il servizio civile internazionale, da allora porta avanti una grande opera sociale: insegnare l’arte circense ai ragazzi delle fogne di Bucarest. In quindici anni, oltre 600 sono passati dalla strada alla ribalta. La prima cosa che mi ha colpito – mi racconta a Milano – è stato il loro atteggiamento la prima volta che li ho incontrati. Facevo il mio spettacolo per strada, al termine pensavo che mi avrebbero rubato tutto il materiale. Invece mi hanno aiutato a rimettere tutto in borsa, e il giorno dopo erano di nuovo lì ad aspettarmi. Di lì in avanti, Miloud, per mesi e mesi condivide tutto con questi ragazzi, dorme nelle viscere della capitale rumena. Rischia non poco, spesso in gioco è la sua stessa vita. Ma così facendo conquista la loro fiducia. E da lì parte al contrattacco. Li affascina con le magie da saltimbanco, con i trucchi da prestigiatore, con i funambolismi e le acrobazie. Non si muore di fame, non si muore di freddo in strada – mi dice -: si muore di solitudine. Questi ragazzi non finiscono nelle fogne per gioco, ma perché uno, due, tre adulti hanno abusato di loro. Trattandoli da persone, ridando loro dignità, tornano a vivere. E ti insegnano tanto. Da loro ho ricevuto quello che né mia madre, né mio padre, né i miei nonni, né i miei insegnanti, hanno mai saputo darmi in tutta la vita.

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