Cosa è successo alla letteratura italiana

Viene proprio da chiederselo, contemplando il deserto costellato di premi-miraggio e di best-seller-fata-morgana da centinaia di migliaia di copie (e di maceri) in cui non-scrittori e pubblico incantato si rovinano a vicenda. C’è stato un trentennio circa, tra la fine degli anni Sessanta e quella dal secolo, in cui pur dolorosamente sono venuti alla luce capolavori e grandi libri – allora si poteva scegliere tra gli uni e gli altri! -; poi, dopo le punte estreme di grandezza della poesia di Luzi, il nulla. E non c’è proprio da nominare nessuno, perché oggi la più dignitosa è la piccola letteratura, ad esempio di uno Sgorlon, il resto è silenzio, ovvero falsificazione pubblicitaria. Dunque: nel 1968 è pubblicato L’avventura di un povero cristiano, estremo capolavoro di Silone, discutibile in parte sul piano storico, non su quello letterario. È la conclusione gloriosa di una personale vicenda di rapporto profondo tra esperienza vitale, parola e storia; rapporto di cui la letteratura italiana nei secoli è stata grande e primissima matrice, da Dante a Manzoni a Leopardi a Michelstaedter a Renato Serra e oltre. E infatti questa secolare esperienza storico-letteraria, che ha partorito il massimo poema dell’Occidente cristiano e libri tra i più sinceriveri della letteratura europea (I promessi sposi, lo Zibaldone, le Operette morali, La persuasione e la rettorica, l’Esame di coscienza di un letterato, ecc.), produce ora oltre al capolavoro siloniano i grandi libri inquieti di Pasolini alla vigilia della morte: Scritti corsari e Lettere luterane, editi appena postumi (1975-1976), in cui alla metafora siloniana dell’Italia postcristiana in declino si sostituisce la realtà pasoliniana dell’Italia postcristiana in rapidissimo sfacelo ideale e morale. Intanto la droga imperversa assumendo proporzioni sociali inedite, perché la gioventù a disagio, come recita una sociologia ideologica, preferisce annegare il proprio futuro dimenticandone le radici buone e cattive, assecondata da un’intellighenzia anch’essa annegata nell’ideologia. Infatti (purtroppo bisogna scrivere molti infatti) i libri grandi che analizzano, rappresentano o denunciano questo gioco all’automassacro, o passano inosservati (non voluti osservare) o fanno scalpore e scandalo ma allora non vengono compresi. Di questi ultimi i vertici sono gli scritti pasoliniani citati, che allora provocano l’irritazione in malafede della borghesia conservatrice e lo scandalo in peggior malafede della sinistra ancora sedicente rivoluzionaria. Oggi sono tutti buoni a dire che Pasolini è stato profeta, in pochi allora sapevamo. Tra i primi, invece, gli inosservati, c’è un puro capolavoro che ancor oggi la critica più nota, salvo eccezioni rarissime (cito il probo Elio Gioanola), si ostina pervicacemente a silenziare; Una valigia di cuoio nero (1998) di Elena Bono (la maggiore narratrice vivente, altro che le scrittrici da best-seller), impressionante evocazione poetico- documentaria dello spirito nichilistico- criminale del nazismo, non solo di quello storico ma di quello che è sempre in noi. Tra le chiacchiere dell’Italia politicona e puritana (che sfocerà nel generoso disastro di mani pulite) è la droga che avanza e sfascia, fisicamente e culturalmente; e un grande scrittore pur intermittente come Testori ne fissa il ritratto in morte nell’ultimo – prima del libro di Elena Bono – veramente alto libro in prosa (che è anche poesia e teatro) che sia stato pubblicato in Italia, In exitu (1988), ovviamente silenziato dalla suddetta critica, che se l’ha letto non l’ha capito. In realtà non restava più niente da dire alla letteratura italiana, che avesse dignità e serietà, perciò tut- ti gli altri si misero a chiacchierare, peggio e più di prima. Perché venendo a mancare – rimossi, distrutti – i fondamenti antichi e medievali della cultura (e quindi anche della letteratura) moderna, quest’ultima si riduceva a una questione di pasticceria esteticopsicologica: a te piacciono i bignè, a me i babà. Solo un grande poeta, quale è stato Luzi, poteva-doveva parlare: al futuro perché il presente capisse (ma ancora aspettiamo): il migliore sguardo da dentro e dall’alto sull’Italia e l’Occidente in anoressia spirituale-culturale si muove da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) a Dottrina dell’estremo principiante (2004); con tutta la nostra quasi invidia di rimasti a piangere nella valle di lacrime culturali. Cosa accadeva in cambio – se mai si può dare qualcosa in cambio della mancata cultura, letteratura, coscienza -? Piombava giù il peggior errore storico-politico che si potesse fare, il bipolarismo: nel Paese dei guelfi e dei ghibellini, dei comuni in perenne differenza e lotta, delle legittime insopprimibili diversità infinitesimali tra regioni e province, municipi e frazioni, nord e centro e sud, sud del nord e nord del centro e così via! Col bellissimo risultato, frutto di ignoranza storica, di riprodurre la frammentazione politica tradizionale – destra, centro, sinistra, già complicata in sé stessa (sinistra della destra, centro della sinistra, ecc, come sopra) in due nuovi caleidoscopi, cioè di raddoppiarla: perché nei due poli, come negli occhi dell’ubriaco, tutto è doppio. Non dico che oggi non ci sono veri scrittori (che, cioè, resteranno); ma non li conosciamo. Forse non pubblicano (per non poterlo fare o per disgusto), forse rimangono sconosciuti; emergeranno nei secoli come Pompei (Qui mira e qui ti specchia,/ secol superbo e sciocco). Ho sempre più la convinzione che occorra ricominciare non dall’industria culturale, ormai falsa per appiattimento (in) culturale e per necessità commerciale, oltre che per disorientamento civile-politico, ma da vere e proprie catacombe: pochi, per pochi (purtroppo), con poche esigentissime parole.

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