Cosa ci dicono i risultati delle recenti elezioni per il Parlamento europeo?
In primo luogo, se l’astensione fosse un partito, sarebbe il partito maggioritario in tutti i 27 stati dell’Unione europea. Mentre, tuttavia, l’astensione è diminuita in Germania e in Francia, per la prima volta in Italia hanno votato meno della metà degli aventi diritto. Questo, ovviamente, non preoccupa i partiti e tantomeno gli eletti, anche se votati soltanto da una minoranza. Deve però preoccupare chi ha a cuore la legittimità democratica delle istituzioni Ue: il Parlamento trae la sua legittimità dall’essere espressione dei popoli dell’Unione (mentre il Consiglio dei ministri dal rappresentare gli Stati e la Commissione dal rappresentare l’interesse generale dell’Ue nel suo insieme). Se la sovranità appartiene al popolo (articolo 1 della Costituzione italiana), l’esercizio della sovranità è sempre più non un processo fisiologico di trasmissione dagli elettori verso i propri rappresentanti, ma un fenomeno patologico in cui chi decide di non votare trasferisce la sua porzione di sovranità verso chi va a votare.
Certo la mediocrità attuale della classe politica non aiuta; in Italia, poi, molti elettori non hanno apprezzato la presa in giro di leader di partito, o addirittura membri del governo (Meloni, Tajani, Schlein), che si sono candidati in molte, o tutte le circoscrizioni, ben sapendo che a Strasburgo non avrebbero messo piede, come specchietto per le allodole. Eppure i temi che meritavano una mobilitazione massiccia non mancavano, primo tra tutti l’avanzare dell’Ue, abbarbicata alla Nato, escalation dopo escalation, verso un conflitto con la Russia che potrebbe essere nucleare, con conseguenze devastanti su tutti noi.
In secondo luogo, chi ha votato ha impresso al Parlamento europeo una marcata svolta a destra. Tra i partiti pro-europei, l’unico in crescita (+10 seggi) è il Partito popolare europeo (Ppe), che ha fatto campagna sullo smantellamento del Green deal, l’insieme delle misure proposte dalla Commissione von der Leyen, in parte già adottate, affinché l’Ue raggiunga la neutralità climatica entro il 2050, prima fra tutte l’obbligo di zero emissioni per le nuove auto dal 2035, inviso all’industria tedesca. Tengono socialisti e estrema sinistra, mentre crollano liberali (-23%) e verdi (-25%). All’estrema destra, il gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (di cui fa parte Fratelli d’Italia) guadagna 4 seggi (cui potrebbero aggiungersi i 10 seggi di Fidesz, il partito del premier ungherese Orbán, espulso dal Ppe e in cerca di una nuova casa) e Identità e democrazia (ID: il gruppo, con la Lega, più euroscettico) ne guadagna 9; avrebbe fatto il botto se il gruppo non avesse deciso di espellere, proprio prima delle elezioni europee, la tedesca Alternative für Deutschland (AfD, che ha ottenuto 15 seggi), a causa dell’intervista del suo leader, Maximilian Krah, al quotidiano La Repubblica, in cui ha affermato che non tutti i membri delle SS naziste erano criminali di guerra e dei suoi legami opachi con la Cina.
In Francia, si è detto, si è votato un po’ più che in Italia, ma è stato ampiamente un voto di protesta. In quasi tutti i dipartimenti francesi il primo partito è il Rassemblement National (il principale partito in seno al gruppo europeo ID) che si è aggiudicato 30 degli 81 seggi francesi al Parlamento europeo. La coalizione, liberale, comprendente il partito del presidente Macron, Renaissance, è stata più che doppiata dall’estrema destra e la sera stessa delle elezioni, il 9 giugno, Macron ha deciso di scogliere l’Assemblée nationale, il Parlamento francese, e di indire nuove elezioni (in due turni, il 30 giugno e il 7 luglio 2024). Decisione che ha seminato il panico a Bruxelles: se una coalizione destra-estrema destra dovesse risultare vittoriosa alle elezioni e formare un nuovo governo in Francia, il processo decisionale dell’Ue potrebbe risultarne paralizzato: con un governo euroscettico in uno degli Stati più importanti dell’Ue, il Consiglio dei ministri (uno dei due rami del potere legislativo, insieme al Parlamento europeo) potrebbe non disporre più della maggioranza necessaria per decidere. Tanto più che la coalizione al governo in Germania ha subito una cocente disfatta (il principale partito, i socialdemocratici dell’Spd, ha registrato il peggior risultato della sua storia) ed elezioni anticipate non sono escluse anche in questo Paese.
In terzo luogo, il risultato delle elezioni influenzerà le nomine delle più alte cariche in seno alle istituzioni Ue. Il Ppe è il primo gruppo in Parlamento e rivendicherà il rinnovo di von der Leyen alla presidenza della Commissione. Macron aveva annunciato che non l’avrebbe sostenuta, preferendole Draghi: tuttavia, il tracollo elettorale lo priva della forza negoziale necessaria a proporre un’alternativa a Ursula von der Leyen, che riceverà, a fine giugno, l’incarico dal Consiglio europeo (che riunisce i capi di Stato e di governo dei 27) e dovrà poi trovare una maggioranza parlamentare.
Teoricamente, la coalizione pro-Ue Ppe, socialisti e liberali dispone di una confortevole maggioranza, 403 seggi su 720. Si sconta però un 10-20% di franchi tiratori, il che obbligherà Ursula a cercare voti o presso i verdi (che hanno sostenuto le politiche verdi della sua Commissione 2019-2024, ma esiterebbero a allearsi con il Ppe che queste politiche vuole ora smantellare) o presso i deputati di Fratelli d’Italia (è nota la stima che lega von der Leyen e Giorgia Meloni), nel qual caso, tuttavia, perderebbe l’appoggio dei socialisti che escludono ogni alleanza con l’estrema destra. Già nel 2019 Ursula era passata per il rotto della cuffia, con i voti dei 5 Stelle, che non hanno fatto parte di alcun gruppo parlamentare nella legislatura che si chiude.
Le altre cariche ai vertici delle istituzioni Ue potrebbero essere già decise nel corso di una cena tra i capi di Stato e di governo dei Paesi Ue il 17 giugno, ripartite tra i tre principali gruppi pro-europei al Parlamento europeo: la maltese Roberta Metsola (Ppe), confermata alla presidenza del Parlamento europeo; l’ex primo ministro portoghese António Costa, socialista, sarebbe designato presidente del Consiglio europeo (guai giudiziari permettendo: il suo governo è caduto l’anno scorso per un scandalo legato alla corruzione e un’inchiesta penale è in corso in Portogallo, anche se Costa non è formalmente indagato) e succederebbe al belga Charles Michel; l’attuale prima ministra estone Kaja Kallas, liberale, sostituirebbe lo spagnolo Josep Borrel come rappresentante dell’Ue per gli affari esteri.
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