Cosa c’è di nuovo?
In margine a un seminario universitario sull'innovazione culturale, una proposta elettorale.
«Quando si ripete che una cosa è nuova ma non si opera per quel rinnovamento e soprattutto non se ne stabiliscono le regole, ecco che di innovazione non si può parlare». Sono parole colte al volo nella relazione del prof. Sergio Rondinara, esperto di epistemologia – cioè, se così si può dire, della scienza delle scienze, quella che ne studia le “condizioni di possibilità” – ad un recente seminario di studi sull’innovazione culturale all’Istituto universitario Sophia di Loppiano. Due giorni ricchi di stimoli e di domande, prima ancora che di risposte.
Ripenso a tutto ciò nello sfogliare i giornali farciti di parole e fatti che meriterebbero di morire nelle cloache piuttosto che sulle ribalte “culturali” come i giornali pretendono di essere, spesso a ragione. S’avvicinano le elezioni, il luogo che dovrebbe essere deputato alla proposta, alla prospettiva, alla novità appunto. Ma sembra che si discuta di tutto tranne che della sostanza, dei programmi, dell’apertura di nuovi scenari.
Appena qualche anno fa si discuteva ancora del «nuovo che avanza», della «nuova società aperta», del «nuovo che fa», se non della «new economy». Oggi “si dà contro” e basta; ma dal “contro” il nuovo non nascerà mai. Perché il nuovo ha bisogno di ispirazione, di creatività, di energia culturale.
Intendiamoci, l’innovazione ha anche i suoi “no”, chiari e tondi, ma maturati in un ambito creativo. Prendiamo l’innovazione francescana: nel suo “sì” a Madonna Povertà il poverello d’Assisi formulava un “no” radicale alle ricchezze inique, alle ingiustizie sociali, alle corruzioni, alle strutture di peccato dell’epoca, feudalesimi vari. Oppure, avvicinandoci all’innovazione gandhiana, troviamo che il “no” alla violenza s’alza esplicito, ma perché portatore di un metodo radicalmente pacifico. E così via.
Il nuovo, però, come ha sottolineato il prof. Luigino Bruni allo stesso simposio di Sophia, non nasce il più delle volte nelle piazze, ma in comunità, anche piccolissime, che hanno però la capacità di mettere in discussione i precedenti equilibri per aprire nuove prospettive, superando i proprio confini. Ciò non implica tuttavia la dimenticanza di quel che veniva prima, della tradizione, quanto il suo compimento. Il nuovo nasce come un seme piantato sul terreno «antico e sempre nuovo», come diceva il poeta. Ma questo “nuovo” fa rintracciato, va “guardato”.
Ecco, allora, un suggerimento offerto a questo periodo cupo della nostra società: guardarsi attorno, cioè «usare lo sguardo che fa nuove tutte le cose», – parole della professoressa milanese Elena Granata – perché di nuovo ce n’è tanto, ma non è stato ancora “illuminato” dai riflettori. Ce n’è nel Parlamento, dove ci sono deputati e senatori che si ritrovano col desiderio di “ascoltarsi” e “vedersi nuovi” ogni giorno, nonostante le opposte parti politiche. Nuovo c’è nelle economie che recuperano il valore dei “beni relazionali” e non solo di quelli materiali. Del nuovo c’è anche nella società civile che si occupa dell’integrazione dello “sconosciuto” nel “conosciuto”, cioè degli immigrati, dei rifugiati, dei poveri (di mezzi) che vengono d’altrove. Del nuovo c’è nelle iniziative culturali che ritornano al più potente stimolo creativo, che è lo stretto legame che intercorre tra vita e pensiero. Del nuovo c’è nella Rete che sa valorizzare non solo l’effimero ma anche quello che può rimanere come patrimonio comune chiunque lo abbia prodotto.
«È lo sguardo che poniamo sull’altro che lo rende nuovo», concludeva il prof. Piero Coda, preside di Sophia. Come non dargli ragione? Come non sognare una campagna elettorale in cui ci si confronti sul merito delle proposte e non sui pregiudizi, proprio quelli cioè che impediscono «lo sguardo che rinnova»?
Ci si consenta di sognare.