Cosa accade in Israele?
La Terra Santa non ha pace come confermano le notizie di uccisioni che continuano a perpetrarsi in quella regione attualmente divisa tra lo stato israeliano e i territori amministrati dall’autorità palestinese. Venerdì santo ha perso la vita anche un giovane italiano, Alessandro Parini, che si trovava a Tel Aviv. La dinamica dell’accaduto, secondo gli inquirenti israeliani, riporta ad un attentato terroristico di estremisti palestinesi. Il clima di tensione è molto intenso su vari fronti.
Un fatto eclatante degli ultimi giorni in Israele riguarda la novità di un vasto movimento di protesta che si è levato contro il governo di estrema destra e il suo progetto di riforma della giustizia, considerato dai manifestanti un grave scivolamento verso l’autocrazia.
Il congelamento temporaneo della riforma decisa dal capo del governo, Netanyahu, ha aperto ulteriori scenari problematici perché uno dei suoi alleati, il leader del partito Otzma Yehudit, Itamar Ben Gvir, ha ottenuto il via libera alla formazione di una Guardia Nazionale che dovrebbe rispondere agli ordini del ministro per la Sicurezza nazionale, cioè allo stesso Ben Gvir.
Alcuni osservatori parlano apertamente del rischio di una guerra civile in un’area decisiva per gli equilibri geopolitici mondiali.
Sul significato da dare a tali manifestazioni di dissenso, abbiamo chiesto il parere di Paola Caridi, giornalista e storica, profonda conoscitrice del Medio Oriente e del mondo arabo. Autrice di testi importanti come Arabi invisibili (2007), Hamas (2009), Gerusalemme senza Dio (2013) e Gerusalemme. La storia dell’altro (2019).
Caridi è presidente di Lettera22, agenzia di stampa specializzata in politica estera, di cui è stata tra i fondatori. Alcuni dei suoi interventi si trovano nel blog “invisiblearabs” che cura da anni per «dare voce e corpo a un pezzo di mondo che voce ne ha poca».
Cosa ci dicono le manifestazioni oceaniche che avvengono in Israele?
Le proteste che durano ormai da oltre 3 mesi rappresentano la classica goccia che fa traboccare il vaso. I motivi del dissenso covano da molto tempo, prima dell’avvento del sesto governo di Benyamin Netanyahu, dove è molto forte l’estrema destra dei partiti guidati da Ben Gvir e da Bezalel Yoel Smotrich. Parliamo di forze che hanno compiuto una scalata costante al potere fino a conquistare una buona fetta della società israeliana. I loro partiti complessivamente hanno conquistato la maggioranza dei voti in elezioni che hanno registrato un alto tasso di assenteismo. Siamo, comunque, in presenza di una democrazia che tuttavia ha seri problemi di governance se teniamo presente che di media gli israeliani sono stati chiamati alle urne, di media, una volta all’anno. Una situazione di instabilità segnata, peraltro, dall’esistenza di alcune leggi fondamentali ma dall’assenza di una Costituzione.
Cosa esprimono le proteste così prolungate oltre la contestazione per la riforma della giustizia?
Esprimono un disagio del “grande rimosso” di Israele che è l’occupazione dei territori palestinesi che va avanti da oltre 50 anni. Questo fatto sta erodendo la democrazia israeliana al suo interno come hanno riconosciuto e affermato alcuni dei maggiori scrittori israeliani, alcuni dei quali come Amos Oz e David Grossman sono conosciti in Italia. Per decenni hanno parlato dell’occupazione come di un cancro che divora lo stato di Israele. L’incapacità di sanzionare se stessi come occupanti è ciò che provoca un disagio profondo che, tuttavia, non emerge in maniera esplicita nelle contestazioni di piazza concentrate sul rischio autocratico della riforma della giustizia.
Una riforma per ora congelata ma che quindi ha fatto traboccare il vaso come dice. Eppure sembra che tra i numerosi manifestanti non ci siano anche i palestinesi con cittadinanza israeliana. Come mai?
Non lo considero affatto in maniera negativa come dicono altri. È vero che manca così un quinto della popolazione israeliana, ma credo che sia estremamente significativo il fatto che la protesta di massa sia essenzialmente promossa da parte della cittadinanza israeliana ebrea. Un fenomeno che ha coinvolto persino alcune colonie israeliane in Cisgiordania, così come aree periferiche dove non ci sono mai state manifestazioni di proteste fin dalla fondazione dello stato di Israele.
Perché lo considera un segnale positivo?
Perché non si può chiedere ai palestinesi di fare il lavoro che compete ai cittadini ebrei di Israele e cioè quello di vedersi allo specchio. È in questo modo che si possono risolvere i vulnus e le questioni irrisolte della democrazia israeliana a cominciare dall’esistenza conclamata di cittadini di seria A e altri di serie B. Oltre ai palestinesi con cittadinanza israeliana, all’interno dei confini dello Stato, esiste un intero popolo – il popolo palestinese – che viene occupato e trattato come senza diritti.
Sono cittadini della Palestina occupata. Ma cosa vuol dire oggi Palestina? Secondo la dizione delle Nazioni Unite non si usa il termine “territori” ma quello di “territorio palestinese occupato” perché in tal modo si rende palese l’idea dell’unità e continuità dello Stato di Palestina costituito da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Di fatto abbiamo ora una Palestina frammentata non solo dal punto di vista geografico ma da quello delle fazioni, con Hamas che controlla Gaza e l’Anp la Cisgiordania. Ma la frattura più profonda è quella che si registra tra l’Anp e la società palestinese. È evidente osservando ciò che avviene in Cisgiordania tra Nablus e Jenin dove si manifesta la sfiducia profonda della popolazione nei confronti del governo di Ramallah [cittadina che funge da centro amministrativo dell’autorità palestinese che rivendica come capitale Gerusalemme, ndr].
In che modo si manifesta tale rottura?
A Nablus e a Jenin si manifesta soprattutto attraverso l’organizzazione in gruppi di resistenza armata come quello noto con il nome di “Fossa dei leoni”, oppure la sfiducia si palesa con l’emigrazione all’estero dei giovani che ormai sono invitati a farlo anche dai genitori che non vedono alcuna prospettiva futura per i propri figli in luoghi dove l’occupazione comporta un continuo stillicidio di sangue. I giovani cercano il riconoscimento di diritti elementari ed esistenziali come quello alla vita, alla libertà d’espressione e la possibilità di avere un futuro. La stessa esigenza si manifesta in maniera diversa a seconda dei diversi luoghi della Palestina, dalle cittadine della Cisgiordania all’area di Gerusalemme est.
E a Gaza?
Gaza è un luogo indistinto, dimenticato da tutti negli ultimi tempi. Poter rispondere alla domanda cosa è la Palestina oggi, quindi, risponde all’esigenza di cercare la via di una pace giusta che non sia normalizzazione. È questo che è in gioco con le manifestazioni che possono incidere sulla scelta del futuro di Israele tra democrazia e autocrazia.
Come ha già detto, un serio problema è rappresentato dalla sfiducia popolare verso i vertici dell’Anp che, da parte sua, non ha permesso di indire elezioni nei territori sotto il suo controllo..
Le ultime elezioni presidenziali sono avvenute nel 2005, seguita da quelle politiche del 2006. Un evidente vulnus democratico e di legittimazione dell’Anp che arriva a essere definita come “collaborazionista” di Israele non solo dalle fazioni estremiste ma dalla gente comune.
Oltre alla resistenza armata contro l’occupazione esiste un movimento di resistenza nonviolenta da parte di alcuni palestinesi che sono sostenuti anche da associazioni del nostro Paese. Quanto sono realmente presenti nel difficilissimo contesto descritto finora?
Esistono da sempre forme di resistenza civile e nonviolenta da parte della popolazione palestinese. È un modo di essere e di agire conosciuto con il termine “sumud”, parola araba che può tradursi in maniera approssimativa con l’italiano “resilienza”. È esercitato quotidianamente da coloro che restano su quella terra nonostante tutte le umiliazioni che devono subire. Bisogna purtroppo registrare il fatto che gli attacchi verso la popolazione palestinese hanno raggiunto ultimamente livelli mai visti in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Le stesse fonti israeliane distinguono tra l’esercito di stanza a Tel Aviv e quello nei territori occupati che ingloba di fatto anche milizie dei coloni.