Spartaco Lucarini: il chiostro del giornalista
Il 3 luglio scorso, a Cortona, sua città natale, è stato ricordato Spartaco Lucarini, un uomo coraggioso, alla presenza delle tre figlie, del sindaco, di mons. Castellani, suo cugino: gli è stata dedicata una scala mobile, simbolo della continua mobilità del giornalista e del suo imperativo morale di ascendere, di salire dal fango della vita all’asciutto della verità. Lucarini ha vissuto da cristiano, da laico, da uomo impegnato nel giornalismo e nella politica. È stato direttore di questa rivista.
Mi si permetta di riportare un episodio vissuto con lui in occasione della morte, avvenuta nel novembre 1975, proprio quando il sottoscritto iniziava la sua carriera giornalistica. Lo assistetti per qualche ora, nella sua ultima notte. Nello stato comatoso, batteva per ore i tasti di un’immaginaria macchina da scrivere. Poi si risvegliò dal torpore, e mi disse in un lampo di lucidità: «Inizi una carriera che ti porterà in giro per il mondo con orari sempre diversi. Una vita difficile, che può sfuggirti tra le dita. Ricordati di raccoglierti almeno una volta al giorno, ovunque tu sia, a passeggiare nel chiostro del tuo cuore per raccontare le tue vicende, anche le più difficili, a Gesù e Maria». Un suggerimento che mi ha evitato una quantità di problemi.
Come giornalista, Lucarini era un ricercatore di spunti sociali. Era un reporter d’inchiesta, non nel senso di cacciatore di scoop o di questioni pruriginose rimaste sottotraccia, ma un ricercatore di quella molla sociale che può poi portare a soluzioni e non a distruzioni. Il giornalista come fattore di coesione sociale, quindi. Prendiamo ad esempio un articolo intitolato “Lo sportello”, un’inchiesta sulla burocrazia, del gennaio 1962. Cosa non comunissima a quel tempo, l’intero reportage era farcito di citazioni di persone comuni, da lui pazientemente intervistate negli uffici pubblici.
Sentite come finiva l’articolo, a proposito dell’utente che si presenta allo sportello: «Va ricevuto sempre e subito, anche se non si possono dedicare che pochi minuti a una sola persona. Bisogna che se ne vada contento, anche se ha ricevuto un rifiuto. Dobbiamo cioè spogliarci della nostra carica e della nostra competenza, e metterci nell’animo dall’altra parte del tavolo o dello sportello». Erano le parole di uno degli intervistati, un colletto bianco umile e sempre nell’ombra. Come la premio Nobel bielorussa Svetlana Aleksievic, costruiva il suo discorso dando la parola sempre e solo ai “piccoli”.
La comunicazione era la sua passione. Come scriveva il 10 marzo sempre del 1962 su queste stesse colonne: «Per i giornalisti cattolici la comunicazione della notizia assurge, in certo senso, a un dono di profezia, a un vero e proprio carisma: enunciare parole, impressionare anime, formare l’opinione pubblica ha un’importanza tale da gareggiare con quella della comunicazione della parola divina».
Parole pesanti, in un’epoca in cui la parola sembra svilita: vengono intentati processi scandalistici basandosi su parole false, vengono sbattuti mostri in prima pagina con millantate parole, vengono calpestati i dritti dell’accusato per l’ideologia del denaro e delle convenzioni politicamente corrette. Tornare alla nudità della parola, alla sua semplicità specchio della verità, è l’imperativo categorico del giornalismo di questo inizio di millennio. Per non cadere nel girone dei falsi profeti.
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Su Spartaco Lucarini, vedi anche l’articolo di Lorenzo Russo: qui.