La radice morale del nostro problema con gli animali
Qualche settimana fa, su «Robinson», l’inserto culturale di Repubblica, è stato pubblicato un articolo di Emanuele Coccia, il cosiddetto filosofo dei millennial, sul rapporto tra uomini e animali. Coccia, riordinando le riflessioni di diversi studiosi che si sono occupati dell’argomento nel corso degli ultimi cinquant’anni, ripropone la tesi per cui il problema che abbiamo con gli animali abbia una radice morale, cioè sia «legato alla difficoltà di riconoscere che membri di altre specie possano avere interessi o la capacità di porsi dinanzi alla propria vita come dei veri soggetti», e la ribalta, osservando come lo strumento più efficace per risolvere tale conflitto in maniera pacifica non sia la morale, ma il diritto.
Estendere il diritto soggettivo a realtà non umane
Già negli anni Settanta – ricorda Coccia – il giurista americano Christopher Stone, in un articolo intitolato «Gli alberi devono poter andare in tribunale?» aveva proposto l’idea di estendere il diritto soggettivo a realtà non umane. Ciò equivale a dire, in termini giuridici, che non è più possibile considerare gli animali come “res”, “cose”, ma occorre cominciare a riconoscerli quali «esseri senzienti» (concetto, quest’ultimo, contenuto nel Trattato di Lisbona del 2007). Tale affermazione giuridica, tuttavia, è evidentemente carica di significati filosofici dal momento che la tradizione che indica come attività senziente (cioè propria della coscienza e del pensiero) quella propria del soggetto risale a Hobbes e Leibniz.
Altre posizioni
Sulla questione esistono ovviamente anche posizioni meno nette, come quella di Marie-Angèle Hermitte, direttrice del CNRS, il Centro nazionale delle ricerche scientifiche francese, per cui il ricorso al diritto soggettivo non è necessario nel caso degli animali, «basterebbe applicare – sintetizza Coccia – le procedure giuridiche attivate nelle class action, senza sbilanciarsi sull’equivalenza della soggettività umana con quella animale».
O anche quella di Tom Regan, che nel 1983 ha pubblicato il volume The Case for Animal Right, in cui il filosofo americano propone una teoria dei diritti morali «fondata sull’idea che qualsiasi essere ha il diritto al medesimo rispetto in quanto dotato di valore inerente». Lo ricorda Giacomo Coccolini nel suo saggio Insieme nell’arca, edito da Città Nuova nel 2012, in cui la prospettiva è etica e non giuridica, ma con un’attenzione particolare a proporre posizioni e azioni (su sperimentazione, veganesimo, zoo ecc.) e a non arenarsi in sterili dispute.
In Zoopolis. A Political Theory of Animal Rights (2013), i filosofi canadesi Sue Donaldson e Will Kymlicka hanno invece proposto un’idea di città non più intesa come «monocultura di uomini» ma come «comunità mista». L’idea era di modificare il concetto stesso di cittadinanza «per includere anche gli animali». I risvolti filosofici di questa affermazione sono molti: l’idea di cittadinanza, infatti, rimanda a una comunità politica, al riconoscimento di diritti e doveri che andrebbero estesi agli animali.
Impoverire la funzione del confronto
Tornando allo spunto iniziale, la riflessione di Emanuele Coccia rilancia la riflessione di Stone correggendone il tiro in: «Portiamo gli animali, tutti gli animali in tribunale» perché, questa è la sua prospettiva, i tribunali e i parlamenti possono contribuire molto di più a far fare passi avanti alla questione che non i social network e le piazze. Ma c’è da dire che, nonostante social e piazze si trasformino troppo spesso in luoghi di scontro anziché di confronto, impoverirne la funzione, essenziale alla democrazia, di spazio pubblico di dialogo ed espressione di idee e valori a qualcosa di subalterno rispetto ai Parlamenti e ai tribunali rischia di ribadire la contrapposizione tra popolo e Stato che alimenta l’antipolitica populista tanto di moda in questi tempi e di impoverire il dibattito attorno al tema dei diritti degli animali.