Corrado, il corsaro di Giuseppe Verdi

Trieste riprende l’opera giovanile del maestro, data la prima volta nel 1848 proprio nel suo teatro. Direttore e regista Gianluigi Gelmetti
Teatro Verdi a Trieste

È partito dall’eroe maledetto del poema di Byron, ma poi Verdi, al solito, l’ha gestito a modo suo. Così Corrado, corsaro fatalista, fidanzato di Medora, fatalista quanto lui, è avventuroso e innamorato. Della libertà, soprattutto. La storia non è a lieto fine, come da dramma foscamente romantico che si rispetti. Lui arriva troppo tardi di fronte a lei morente, e si uccide disperato, mentre Gulnara – la donna che l’ama e che Verdi delinea meglio certamente di Medora – rimane sconvolta. Si è detto che Verdi abbia scritto l’opera di furia e di malavoglia per l’antipatico – per lui – impresario Lucca (ma a Verdi tutti quelli che non facevano quello che voleva erano detestabili…). Il melodramma in tre atti comunque andò in scena proprio a Trieste il 25 ottobre 1848, e non andò bene. Il pubblico non l’apprezzò e dopo tre sere l’opera venne sostituita col più recente Macbeth.

Ma è proprio così brutta e raffazzonata quest’opera degli "anni di galera" verdiani? Ancora una volta il giudizio, più che alle incisioni discografiche – fra cui quella eccellente con la Ricciarelli – si fa valere all’ascolto diretto, dal vivo.

A Trieste hanno un’orchestra molto buona, nei legni e negli ottoni (che non “scrocchiano” mai e ce n’hanno da fare in questa partitura) e molto soffice e calda negli archi. Guidata da una mano esperta come quella di Gianluigi Gelmetti, che si vede ha studiato e ristudiato l’opera a fondo, non si è mai permessa né una sbavatura, né un fuori tempo, né un calo d’impegno.

Ne è emerso un Verdi certo giovane e talvolta sbrigativo, ma col geniaccio di uno che anche nell’abbozzo ha trovate singolari. Corrado canta melodie non belliniane ma di virile soavità e cabalette agguerrite certo, ma libere dalla verve donizettiana, per un empito più deciso e forte: e non vanno sempre eseguite a rotta di collo, anche se il ritmo è di polacca, perché Gelmetti sa “misurare” la partitura sulle voci dei cantanti ed anche sul “momento” della scena.

Certo che  il tipico sangue verdiano affiora nei duetti e nei concertati e dà vita, nella scena di morte finale, ad un momento veramente bello, che incanta il pubblico – gli studenti assai numerosi – e gli fa trattenere il fiato.  Spesso Verdi dà il meglio alla fine di un atto o di un’opera. Qui, slanci, emotività, corse e cori, tutto viene riassunto nel finale dove l’essenzialità della strumentazione accompagna quel pianto che è il segno inconfondibile di Verdi e della sua com-passione per ogni dolore umano. Fosse anche quello forsennato di un emarginato e maledetto come Corrado, al quale, finito l’amore, manca tutto.

Per un’opera  dalla vocalità ardua e dai ritmi travolgenti ci vuole un cast bene attrezzato. A Trieste Corrado era il giovane e promettente Luciano Ganci, dalla voce stentorea (forse troppo), mentre Medora era Michaela Marcu, voce piena, e Gulnara, la voce preziosa, vellutata di Paoletta Marrocu. Il “cattivo” pascià Seid era Alberto Gazale, un baritono di lungo corso.

Gelmetti ha curato la regia, estrosa e birichina – la scena dell’harem – quanto basta per dar gusto e sapidezza a un dramma di per sé oscuro, senza mai dimenticare  che i cantanti devono anche cantare (per fortuna!) e quindi lasciandoli respirare e anche gioire delle finezze musicali sparse qua e là, ma anche delle scene veramente belle e simboliche di Pier Paolo Bisleri sui dipinti fiammanti di Franco Fortunato.

Un grande spettacolo, apprezzato dal vasto pubblico, anche giovanile. Merito pure della volontà del sovrintendente Claudio Orazi, in tempi non facili per i teatri d’opera italiani.

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