Corpi scossi in cerca di pace
Nei suoi spettacoli Alain Platel ha sempre coniugato la dimensione della sofferenza alla creazione artistica. Un teatrodanza che si nutre della realtà quotidiana, del vissuto. Per Vsprs – contrazione della parola Vespro – il coreografo e pedagogo fiammingo con la sua compagnia Les Ballets C. de la B., ha attinto a filmati del neuropsichiatra Arthur Van Gehuchten coi pazienti di un ospedale psichiatrico, e a documentari etnografici di riti africani. Risultato: una danza ad alto voltaggio che sembra attraversata da una costante scossa elettrica; che innesca stimoli gestuali, tremiti, contorsioni apparentemente squilibrati. Tra innocenza fanciullesca e patologie simulate, i dodici danzatori danno vita a un’isteria collettiva, simile in certi momenti ai riti della trance, che altro non è che il bisogno sia di liberazione fisica dal corpo malato, sia di affrancamento spirituale: quasi un raggiungimento dell’estasi, l’uscire cioè da sé stessi per entrare in un’altra dimensione. La scena è dominata da una grande montagna di bende bianche. Attraversata, esplorata, scalata. In basso una nicchia con un gruppo di musicisti dai candidi vestiti, e ai piedi del monte personaggi in preda a movimenti inconsulti. Un’umanità disorientata, sofferente, disturbata. L’insieme sembra immetterci in un girone infernale dal quale via via risalire per uscirne fuori e incamminarsi, a fatica, verso un paradiso perduto, in cerca di pace. Dichiara lo stesso Platel che lo spettacolo vorrebbe essere una preghiera laica, un’accettazione del dolore, una dichiarazione d’amore, una lezione d’umanità . Ed è proprio contaminando sacro e profano, la musica barocca del Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi, con quella free jazz, swing e tzigana, che Platel ottiene una partitura coreografica di potente inventiva che esprime il disagio esistenziale del nostro tempo malato. S’inseguono movimenti incontrollati, salti spettacolari, violente cadute al suolo; il canto disperato di una donna, e la leggerezza di una ballerina sulle punte che stride nella frenesia del contesto; parole di non sense, urla e discese in platea, contorsionismi del corpo, deformazioni del volto. E nel mezzo irrompe, poetica, balsamica, la preghiera di san Francesco Dio, fammi strumento della tua pace cantata da un soprano. Nel finale, di geniale inventiva, sono tutti in preda ad un tremolio costante, con infinite varianti gestuali. Improvvisamente, braccia aperte e viso verso l’alto, scattano in piedi come in una visione mistica. Cadono quindi a terra per la perdita del controllo del corpo. Restano dei superstiti. Lentamente si ricompongono e si incamminano in cordata sulla montagna di stracci, aiutandosi. Come a ribadire che la salvezza sta nel sostenersi vicendevolmente.