Coronavirus, un raggio di speranza
Chi di noi non sta seguendo le notizie che stanno inondando i mezzi di comunicazione di tutto il mondo e che riguardano l’allarme sul coronavirus? Tutti. C’è apprensione e spesso panico, che molti quotidiani asiatici bollano come più pericoloso del virus stesso. Leggendo le cose da qui, ad esempio, dove i casi sono pochi e la corsa ai ripari è già iniziata, mi rendo conto che sui cellulari di tutta la popolazione appaiono i messaggi del ministero della Salute del Vietnam, che aggiornano in tempo reale i casi e indicano come prevenire i contagi.
Ieri, ad esempio, è stata chiusa ad Hanoi una farmacia che aveva messo in vendita le mascherine, le famose mascherine, a più di 20 euro al pacco che ne conteneva 100: in genere il prezzo è di 1,5 euro.
Sciacallaggio e meschinità: non mancano da nessuna parte. Anche dai mercati in Saigon stanno sparendo le mascherine: almeno così dicevano. Poi stamattina, davanti a una farmacia, trovo alcuni pacchi di mascherine appoggiate su di uno sgabello con un cartello: «Prendere gratis, chi ne avesse bisogno!». Scendo dalla moto, tolgo il casco ed entro; stringo la mano alla farmacista e la ringraziando. Mi fa un sorriso e uscendo fuori le faccio pubblicità: quella farmacista avrà così acquisito nuovi clienti, per il suo atteggiamento civico.
Purtroppo c’è anche tanto allarmismo indiscriminato, addirittura con episodi vagamente razzisti. Dalla Corea del Sud a Roma, si leggono notizie di turisti cinesi scacciati dai locali o a cui è stato impedito di entrare con tanto di cartello: «Non sono ammessi cinesi». Poi fortunatamente rimossi… Ma intanto il sentimento “anti-cinese” di cui il sudest asiatico non è esente, si sta rafforzando rapidamente.
Un tenue raggio di sole, di speranza, in questo che potremmo definire “un momento oscuro” per l’Asia è la conferma riportata oggi dal giornale Bangkok Post, avvenuta stamattina ore 4.31 da parte di due medici thailandesi del noto ospedale Rajavithi di Bangkok, i dottori Kriangsak Atipornwanich e Subsai Kongsangdao, che la scoperta, annunciata il giorno prima circa la cura efficace su di una paziente cinese di 70 anni, è realmente avvenuta e che si continuerà l’esperimento su gli altri 19 pazienti in quarantena. Dopo 48 ore dall’inizio della cura, la paziente, proveniente dalla provincia di Wuhan, è risultata negativa al successivo test, si sente molto meglio e ha potuto sedersi sul letto, cosa che prima era inimmaginabile.
Appena i medici hanno constato che il paziente era positivo al coronavirus hanno iniziato a somministrare “oseltamivir”, un antinfluenzale già usata per curare pazienti affetti dalla Middle East Respiratory Syndrome, comunemente chiamata Mers; in più anche “lopinavir” e “ritonavir”, farmaci cosiddetti retrovirali, prescritte per pazienti affetti da Aids. Il dottor Kriengsak ha poi annunciato che tale trattamento è stato comunicato alle autorità cinesi, che hanno immediatamente iniziato i trattamenti anche su pazienti nella zona maggiormente colpita. I medici thai hanno annunciato che, dopo circa 10 giorni di studio, avevano capito che il fatto che anni fa i pazienti affetti da Mers fossero stati curati in questo modo insospettiva positivamente, che hanno solo aggiunto i retrovirali.
L’ospedale Rajavithi è uno degli ospedali governativi più all’avanguardia in Thailandia, soprattutto per lo studio di malattie tropicali e virali. Già da anni, un altro team dell’ospedale, aveva portato avanti esperimenti e studi sui pipistrelli, per esempio, che anche in Thailandia è un cibo comunemente usato dalle etnie tribali che abitano le zone montagnose, al confine con il Myanmar. Ma anche in altri centri di ricerca in tutto il mondo, come allo Spallanzani di Roma, la comunità scientifica avanza e ben presto, lo si spera, si troveranno adeguate soluzioni.
Al momento in cui scrivo, si parla di 362 morti e 17.388 contagiati. Cosa conviene fare? Sicuramente seguire i consigli degli esperti e poi, cercare di vivere, direi, come la farmacista di Saigon, o i ricercatori thailandesi: donare a chi potrebbe essere più in difficoltà di noi. Non escludere il contatto umano con nessuno, senza lasciarci prendere dal panico inutile.
Un infimo episodio m’è capitato stamane all’ufficio dell’immigrazione, con un pienone da impazzire, dove dovevo ritirare il mio passaporto. Un poliziotto in mascherina e guanti in lattice mi ha consegnato il documento ma evidentemente non era tranquillo: aveva una faccia spaventata da morire, anche perché l’ufficio era pienissimo di gente, tra cui non pochi cinesi. Mi sono tolto la mascherina e gli ho stretto la mano: «Buon anno, amico: non ho paura di salutarla». Non ho certamente risolto il problema del coronavirus, ma almeno qualcuno è rimasto felice.