Coronavirus, ore decisive in Europa per evitare il tracollo dell’Italia
Il presidente del consiglio Conte ha annunciato via Facebook, nella notte di sabato 21 marzo, il lockdown, la inevitabile chiusura di tutte le attività produttive “non essenziali su tutto il territorio nazionale”. Il nuovo Dpcm è stato firmato domenica 22 marzo.
Ora più che mai, per impedire il tracolo dell’Italia occorrono, come già messo in evidenza, risorse economiche straordinarie. La vera battaglia si consuma nella settimana che si apre lunedì 23 marzo con un serie di incontri decisivi degli organi dell’Unione Europea. Per approfondire la questione abbiamo sentito Massimo D’Antoni, docente di Scienza delle finanze all’Università di Siena.
Blocco totale vuol dire replicare il modello adottato a Wuahn in Cina. Che conseguenze si possono prevedere in Italia?
Per valutare la situazione bisogna tener presente che in quella regione sono serviti 50 giorni per ridurre a zero i nuovi contagi, ma il blocco della produzione permane anche successivamente, sarà una ripartenza graduale e lenta. Inoltre, in Cina hanno adottato misure strettissime non compatibili con il nostro sistema di garanzie individuali. Infine, punto forse più importante, hanno messo in quarantena stretta una provincia delle dimensioni dell’Italia in una nazione che conta 1 miliardo e 400 milioni di abitanti. Non è una situazione confrontabile con quella italiana, visto che non c’è chi possa assisterci e rifornirci dall’esterno o farsi carico dei costi che sosterremo. Anche ammesso che ci fosse una simile solidarietà, gli altri Paesi europei devono affrontare crisi simili. Quindi un blocco totale “cinese” semplicemente non ce lo possiamo permettere, dobbiamo trovare un punto di mediazione tra sopravvivenza sanitaria e sopravvivenza economica, che nel medio periodo significa a sua volta capacità di far fronte all’emergenza sanitaria.
Si può superare sul piano economico?
La cosa più urgente è evitare che la chiusura comporti il fallimento delle attività economiche e metta a rischio chi, in questo momento, non può lavorare. Occorre un intervento deciso dello Stato con spesa in deficit, e questo ormai lo riconoscono tutti. Anche il problema dei vincoli europei è per il momento accantonato, visto che il patto di stabilità e crescita che ci impone dei limiti all’indebitamento è stato temporaneamente sospeso dalla Commissione. Certo, si tratta di un “ognuno per sé”, ma si tratta di una crisi che colpisce tutti, quindi questo non mi sorprende. Alla fine nei momenti di crisi è agli Stati che ci si rivolge, lo abbiamo visto anche nella Grande Recessione del 2008. Le entità sovranazionali possono al massimo dare un supporto, una copertura. È importante la disponibilità a impegnare 750 miliardi di euro da parte della Bce, che può scongiurare il rischio del panico sui mercati. Ma gli interventi di politica monetaria come questo, pur indispensabili, agiscono solo indirettamente sull’attività economica; danno liquidità alle banche, che a loro volta possono dare credito alle imprese, ma questo non è sufficiente, come dicevo bisogna fare in modo che tale intervento si traduca in un’azione diretta dello stato.
Ma il debito pubblico aumenterebbe…
Sì, c’è un rischio concreto che, usciti da questo tunnel dell’emergenza sanitaria, ci ritroviamo con un debito tale che i mercati finanziari non ci diano più credito.
E per evitare tale esito infausto?
Esistono diverse soluzioni in discussione. Una è il ricorso al Mes, meccanismo europeo di stabilità, anche detto fondo salva-stati. Anche in questo caso si tratterebbe di un debito, ma questa volta contratto con un’istituzione regolata da un trattato intergovernativo. Il meccanismo è complesso, perché la dotazione attuale del Mes, 500 miliardi, non è assolutamente sufficiente per far fronte a una crisi che non è certo solo italiana. Quindi in questi giorni si leggono molte proposte innovative, ad esempio quella di consentire al Mes di emettere titoli sul mercato per reperire risorse da prestare agli Stati. Si tratta però di una soluzione che non è senza problemi: da trattato, il Mes può erogare prestiti solo sotto condizioni molto strette relative ai piani di rientro, che il Paese deve negoziare con la cosiddetta “trojka”, cioè la BCE, la Commissione e il Fondo monetario internazionale. È quello che abbiamo visto con la Grecia: l’adesione al Mes comporta di sottostare alle condizioni dei creditori con azioni molto energiche di riduzione della spesa pubblica e aumenti di imposte. Insomma, una specie di fiscal compact molto più rigido. Per questo chi sostiene il ricorso al Mes precisa che questo dovrebbe avvenire senza “condizionalità”, cioè senza prevedere l’imposizione di queste condizioni di rientro (tagli a pensioni e sanità, così si è espresso ad esempio il presidente Conte con il Financial Times, ndr).
Le pare una soluzione accettabile?
Si tratta di una soluzione che, come dicevo, non è prevista dall’attuale trattato che regola il Mes. Si dovrebbe arrivare a una modifica, che richiede un accordo unanime. Non ritengo che questo sia probabile; in passato, Paesi come la Germania si sono opposti e hanno condotto battaglie legali molto accese sulla possibilità di concedere sostegno diretto o indiretto ad altri Paesi in assenza di rigide convenzionalità. Sappiamo che anche l’Olanda sarebbe contraria. Ma più che altro, penso che ci troviamo davanti a scenari che cambiano rapidamente e proprio per questo eviterei di prendere impegni sui quali potremmo non potere o non volere sottostare in un prossimo futuro. È un momento in cui la logica del “non c’è alternativa” sembra particolarmente debole.
Altre soluzioni, se ce ne sono?
Mi sembra interessante la proposta di emettere debiti a lungo o lunghissimo termine, che potrebbero essere acquistati dalla BCE e, di fatto, “congelati” nel bilancio di questa. È nei fatti una monetizzazione del deficit, che servirebbe ad evitare la crescita del debito pubblico in un momento in cui il prodotto nazionale è in netto calo. Perché altrimenti il rischio reale è quello del default dello stesso Paese. Mi ha sorpreso che una soluzione come questa, considerata molto poco ortodossa, sia stata suggerita anche dall’ex rettore della Bocconi Guido Tabellini. Del resto, vediamo che in molti stanno mettendo in campo soluzioni eterodosse; gli Usa stanno intervenendo con grande energia a favore del proprio sistema economico.
Da noi non si può fare?
La differenza è che da noi l’azione della banca centrale è molto più vincolata, sia dai trattati che dai veti reciproci tra Paesi. Ma di fronte all’emergenza per fortuna qualcosa si è mosso, come dicevo a proposito del programma di acquisto di titoli da 750 miliardi. Per quanto ci riguarda, dobbiamo utilizzare questo spazio e magari immaginare forme di mobilitazione del risparmio degli italiani – penso a sottoscrizioni su base volontaria -. Nel dramma di questi giorni si scorge un clima di rinnovata unità, che potrebbe tradursi in una disponibilità a dare un contributo per salvare il Paese e ripartire, magari con più energia di prima. Penso che non dovremmo aspettarci aiuti da fuori, dovremmo contare soprattutto su noi stessi. Poi, se dovessero venire iniziative a livello europeo, come gli eurobond (obbligazioni garantite da tutti i Paesi Ue, ndr) tanto meglio, purché tutto avvenga entro un rapporto tra pari. La divisione tra Paesi debitori e creditori, tra virtuosi e colpevoli, che abbiamo visto crescere dopo la crisi è stata distruttiva per i rapporti interni all’Unione europea. Occorre pensare con realismo a tutte le soluzioni possibili, senza barriere mentali.
E il richiamo continuo ad un nuovo Marshall come può essere inteso?
Parlare di Piano Marshall ha un indubbio potere evocativo, ma, al di là del fatto che potremmo trovarci in un analogo scenario di ricostruzione, non vedo molti punti in comune. Si trattava di un prestito da parte di un soggetto forte, gli USA, che aveva un interesse a ricostruire l’Europa in funzione anche di una logica di nascente polarizzazione all’inizio della guerra fredda. Ora mi sembra tutto molto diverso, anche se si vede come gli “aiuti” vengano giocati anche ai fini di un ridisegno dei rapporti geopolitici.