Coronavirus: nuovi stili nello sport

L’emergenza fa emergere riflessioni e stili che dovrebbero caratterizzare la normalità anche per categorie cruciali, come la politica e l’informazione, che spesso mostrano limiti nocivi per la collettività.
Jurgen Klopp (AP Photo/Frank Augstein)

«Non mi piace che su una faccenda molto seria l’opinione di un allenatore sia importante. Non importa ciò che ha da dire chi è famoso. Non può essere che chi non ha conoscenza della materia come me parli di certe cose. Le persone che ne sanno dovrebbero parlarne, non gli allenatori: non capisco. Politica, coronavirus… perché me? Io indosso un cappellino da baseball e ho la barba fatta male. Sono preoccupato tanto quanto voi, forse meno, non saprei, non so quanto siate preoccupati, ma la mia opinione non conta in realtà. Vivo su questo pianeta come voi e voglio che tutti siano sani e al sicuro. Auguro il meglio a tutti, ma la mia opinione sul coronavirus non è importante».

Così Jurgen Klopp, allenatore del Liverpool campione in carica del calcio europeo e mondiale per club, ha risposto alcuni giorni fa a un giornalista che, in conferenza stampa, gli chiedeva di pronunciarsi in merito alla diffusione del Covid-19. Parole che inducono a un bagno di realtà probabilmente necessario, radicato in una domanda: perché chiedere a un vip, di qualunque estrazione, opinioni e pareri rispetto ad ambiti che, in virtù dell’esposizione mediatica generata, provocherebbero solo confusione e disinformazione stessa, date le competenze pressoché nulle dell’interessato, se non addirittura sterile partigianeria, da parte di telespettatori e lettori?

Una domanda di senso, tra deontologia ed etica, da rivolgere soprattutto al nostro mondo dell’informazione, che spesso preferisce, in nome di audience e clic facile, dunque di denaro, intercettare un nome famoso, un vip, o un influencer in grado di spostare l’utenza, all’esperto poco noto ma competente, o al professionista lontano dai riflettori ma in grado di offrire una riflessione utile e costruttiva.

Una domanda impellente, che dovrebbe spingere lo stesso pubblico a chiedersi perché un uomo dotato nell’arte di tirare calci al pallone venga chiamato a pronunciarsi in tema di ingegneria edile o medicina, ad esempio. Perché chiedere a Klopp, allora, di parlare di virologia? È senza dubbio lo stesso motivo per cui spesso a un cabarettista, un comico o un attore viene chiesto di parlare di un decreto legge o di una direttiva europea in ambito economico: la risposta attiene all’utente, a tutti noi, responsabili del medium di cui fruiamo. Siamo ciò che leggiamo e ciò di cui ci informiamo.

Ma in settimana ha destato attenzione anche un’altra riflessione, quella pubblicata in un lungo post Instagram da Federico Bernardeschi, calciatore della Juventus: «Odio, razzismo e discriminazione sono più letali del coronavirus. Un virus sta dominando le nostre paure. Ci terrorizza, limita la nostra libertà, ci fa disprezzare l’altro. Abbiamo chiuso i porti a chiunque, rintanandoci nella nostra fedele cerchia, criticando gli altri la mattina al bar o in coda al supermercato durante la folle corsa per accaparrarci l’ultimo, inutile pezzo di pane, che deve essere il nostro e di nessun altro, manco fosse la fine del mondo.

Abbiamo deciso di offendere, cacciare, allontanare. Abbiamo fatto morire donne e bambini, perché prima veniva la nostra sicurezza, la nostra ricchezza e poi le loro vite. E adesso siamo noi gli emarginati, siamo noi ad essere discriminati e cacciati, rinchiusi tra i confini di un Paese che soffre.

Quando tutto questo finirà, ricordiamoci di questi giorni, di questa sofferenza, di questa isteria che ci ha trasformato in animali mossi solo dall’istinto di sopravvivenza, senza ragione, senza rispetto per nessuno. Ricordiamocelo poi, di come ci trasformano disperazione e paura di morire. Ricordiamocelo quando ad aver paura sarà qualcun altro, che chiede aiuto».

Parole che non necessitano di commento: avevamo bisogno davvero di una così triste lezione, per dare peso a queste riflessioni? Per chiedere alla politica, come all’informazione e alla nostra stessa coscienza, di misurare più e meglio espressioni, scelte e stili di vita?

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