Coronavirus, niente paura!

«Il panico ha sempre poco senso» è lo slogan che accoglie i turisti in arrivo a Bangkok: è quello che bisognerebbe sentirsi dire in ogni aeroporto del mondo. Attimi di vita quotidiana per sdrammatizzare l’emergenza.

Il volo che mi ha portato da Saigon a Bangkok, pochi giorni fa, era semivuoto: meno della metà dei passeggeri e tutti rigorosamente con la mascherina. Il Vietnam ha conosciuto solo 16 casi ufficiali e nessun decesso. Il Paese ha chiuso le scuole su tutto il territorio nazionale con gravi disagi per gli studenti più poveri e le loro famiglie. Dopo un allarmismo generale a detta di molti ingiustificato e che ha sfiorato quasi la follia collettiva, il Paese sta ritrovando la serenità per andare avanti.

L’allarmismo per il Coronavirus ha accentuato il consueto sentimento anticinese che pervade la società, con rocambolesche fake news a proposito delle migliaia di vittime nascoste all’opinione pubblica e su come sia stato “prodotto” il Covid-19 in laboratorio in Cina, proprio a Wuhan, sfuggendo poi al controllo delle autorità… Insomma, le solite leggende metropolitane che sono poco attinenti alla realtà e che disseminano scoraggiamento, rabbia e malumore verso la Cina, che in questa storia appare “vittima”, come d’altronde il resto del mondo, e non tanto artefice di un’epidemia che ha colpito la sua popolazione in modo indelebile. Il premier Xi Jinping ha affermato, anche poche ore fa, che il Paese soffre, ma continua la sua politica di avanzata economica ed espansione mondiale, confortato anche dagli apprezzamenti dell’Oms sulla sua politica sanitaria dopo l’apparire dell’epidemia. Come a dire: non ci fermeremo.

Arrivando da una città come Saigon, piena di traffico e motorini, Bangkok sembra, più che mai, una “bella addormentata”. I due aeroporti internazionali del Paese, Don Muang e Suvarnabhumi, sono pressoché deserti. I turisti cinesi, che sono arrivati qui in 20 milioni lo scorso anno, sono diminuiti, ma non del tutto spariti: la Thailandia non ha chiuso le sue porte a una nazione che l’ha sempre sostenuta e aiutata a crescere. Mentre scrivo sono a poche centinaia di metri da un enorme centro commerciale, con uffici e grandi magazzini, dove hanno sede anche molte aziende cinesi, i cui dipendenti puntualmente incontro ogni mattino.

Nel momento in cui scrivo, l’agenzia South China Morning Post batte la notizia che quasi 28mila persone hanno superato il Covid-19 e questo dà speranza. Ma cosa si sta facendo in Asia e soprattutto nel sudest asiatico per arginare l’epidemia? Si fa prevenzione, come nel resto del mondo, ma anche con una certa tranquillità: qui si è abituati a vivere con qualche virus in arrivo, che inevitabilmente arriverà e che si cercherà in qualche modo di arginare ma… lasciandogli fare il suo corso. Non è fatalismo, ma saper accettare la vita e anche la morte, se è arrivato il momento.

In genere da queste parti del mondo i poveri, i più semplici, coloro che hanno poco, non hanno molta paura dei virus perché ci convivono. lLaltra sera, in uno degli incroci più ricchi della città, ho scorto una signora che chiedeva l’elemosina. Prima ho tirato dritto, poi ci ho ripensato e sono tornato sui miei passi. Sia lei che io eravamo senza mascherina: «Questo piccolo aiuto è per te», le ho detto, dandole la mano. E lei, felice, mi ha sorriso e ha preso la mia. «Da dove vieni?», le ho chiesto. «Dalla Cambogia», mi ha risposto. Le ho restituito il sorriso e le ho detto l’unica frase in cambogiano che conosco: «Suksabaidee», che vuol dire: stammi bene, molto simile alla lingua thai. Era raggiante e mi ha risposto con un: «Suksabai suksabai», sto bene, sto bene. Ci siamo lasciati, entrambi contenti d’esserci incontrati in un’anonima serata di febbraio, in cui molta gente fugge e nemmeno ti saluta, a circa 35 gradi, su un ponte che collega un incrocio molto elegante. Sono ritornato a casa, dimenticando di lavarmi le mani dopo aver stretto quelle della signora cambogiana. Succede. Anche in una città come Bangkok, piena di luci e di lusso, ma col virus in agguato.

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