Coronavirus, le possibili terapie
Nel mondo dei germi, la distinzione fra i microbi ha risvolti importanti sulla nostra vita: infatti mentre possiamo combattere i batteri, vere e proprie cellule autonome, con gli antibiotici (farmaci in grado di “avvelenare” gli enzimi del loro specifico metabolismo), non possiamo fare lo stesso con i virus. Questi sono involucri di proteine che contengono materiale genetico, in grado di costringere le nostre cellule a produrre altre copie del germe, in un ciclo che finisce per ucciderle. La ricerca di farmaci antivirali consiste nel cercare molecole in grado di bloccare l’una o l’altra delle fasi del loro ciclo vitale, impedendogli di entrare nelle cellule. La difficoltà sta nel fatto che i virus hanno molti e diversi recettori per legarsi alle cellule umane, i quali cambiano rapidamente da una generazione all’altra.
In ogni Paese, la messa a punto di protocolli terapeutici verso qualunque malattia viene regolamentata dalle Agenzie del Farmaco (in Italia, AIFA) che autorizzano le così dette indicazioni d’uso per i diversi medicinali: ciò serve per consentire attente valutazioni di sicurezza e di efficacia che derivano sia dagli studi clinici sia dalle informazioni di farmaco-sorveglianza sulla popolazione.
Per cui davanti a una nuova malattia, che si diffonde rapidamente, le indicazioni terapeutiche cambiano via via che le evidenze si accumulano.
Cosa si sta facendo per curare i malati di COVID? Al momento disponiamo di farmaci che riducono la replicazione del virus e di terapie di supporto, per consentire all’organismo di superare la fase acuta della malattia (come ad esempio la ventilazione invasiva). Inoltre, si stanno sperimentando terapie che aiutano il sistema immunitario a reagire senza provocare a sua volta danni agli organi interni, un problema che riguarda sopratutto certi tipi di pazienti e che si comincia a conoscere meglio.
Gli studi clinici autorizzati sono diverse centinaia nel mondo, 45 solo in Italia (qui l’elenco sulla pagina di AIFA)
Per gli antivirali, attivi contro il ciclo di replicazione virale, sono in corso studi controllati negli ospedali che valutano la risposta clinica su gruppi selezionati di pazienti: il remdesivir (nato per trattare la malattia di Ebola), dato il buon risultato di tali studi, il 25 giugno 2020 è stato il primo farmaco autorizzato a livello Europeo per l’uso specifico terapeutico: attualmente è possibile richiederlo per pazienti che rispondono a specifiche caratteristiche, su autorizzazione nominativa di AIFA, per cicli di 5 giorni.
Gli altri antivirali, fra i quali viene inclusa anche l’idrossiclorochina, non hanno mostrato sufficienti evidenze di efficacia e sicurezza per poter essere utilizzate al di fuori di studi clinici specificamente autorizzati.
La malattia causata dal SARS-CoV-2 è una complessa sindrome, (che prende il nome di COVID), nel cui sviluppo hanno un ruolo sia i danni direttamente causati dal virus sia effetti legati dalla risposta immunitaria. Infatti nei protocolli di cura in uso, a questo scopo, viene utilizzato anche cortisone.
Gli immunomodulanti cercano di ridurre questa risposta in un delicato equilibrio che consenta alle cellule immunitarie di continuare a combattere il virus, ma limitando i danni, soprattutto a livello polmonare, e agiscono inibendo la funzione di diverse molecole “infiammatorie” usate dal sistema immunitario. Sono in fase sperimentale farmaci come il Ruxolitinib, ma è ancora presto perché questo tipo di terapia sia approvata per l’uso routinario.
Una delle difese del nostro corpo contro virus e batteri sono molecole, chiamate anticorpi, di “bloccare” il microrganismo prima che si sviluppi una nuova infezione: questi anticorpi neutralizzanti possono essere prodotti artificialmente, con tecniche di ingegneria genetica: attualmente sono in corso sperimentazioni cliniche per alcuni anticorpi diretti contro la proteina che consente al coronavirus di entrare nelle cellule.
Un altro importante filone di ricerca sperimentale è utilizzare gli anticorpi che in certi casi, estratti dal plasma di pazienti guariti e, dopo essere stati purificati, possono essere somministrati ai pazienti per aiutarli a combattere la malattia. Questa tecnica, che si chiama “terapia con siero iperimmune“, è usata con successo in altre patologie virali o per neutralizzare tossine e veleni. Sono in corso diverse sperimentazione in molti Paesi e il limite è la difficoltà di reperire il plasma di pazienti guariti: chiunque abbia superato la malattia, anche in Italia, può contattare un centro trasfusionale e sottoporsi volontariamente alla donazione per consentire alla ricerca di proseguire.
Infine ci sono le terapie di supporto per sostenere il funzionamento degli organi vitali mentre il malato combatte l’infezione; la prima di queste è la ventilazione, sia invasiva sia non invasiva, che viene utilizzata in ambienti protetti, come le terapie intensive, nelle forme gravi e critiche di malattia.
Un recente studio ha suggerito la possibilità di individuare precocemente i pazienti che subiscono un danno maggiore legato alla coagulazione del sangue nei capillari del polmone e che, quindi, possono beneficiare del trattamento con farmaci anticoagulanti (profilassi con eparina a basso peso molecolare).
Su questo tema si sono sviluppate critiche e polemiche, basate sul concetto che basterebbe somministrare anticoagulanti anziché ossigeno per curare i malati gravi, evitando manovre invasive ed inutili sofferenze. Questa idea è del tutto priva di riscontro in quanto tutti i pazienti critici, indipendentemente dal danno vascolare polmonare, hanno bisogno di trattamento ventilatorio quando la sottile membrana degli alveoli, attaccata dal virus, si inspessisce e non permette gli scambi dei gas respiratori fra il sangue e l’esterno.
Infine, l’utilizzo di azitromicina, un antibiotico che aiuta a ridurre il rischio in co-infezioni batteriche durante la malattia e che pare avere anche un effetto utile nella modulazione della risposta immunitaria.
Dopo i primi mesi dall’inizio della pandemia, possiamo dire senz’altro che le nostre armi per combattere il virus si sono affinate e, anche se ancora non esistono trattamenti risolutivi, la gestione dei pazienti avviene in modo più efficace, contribuendo a ridurre la mortalità e gli esiti a lungo termine rispetto a quanto avveniva prima (anche per il ridotto impatto sui servizi sanitari di un minor numero di malati).
Anche se la comunità internazionale e la maggior parte dei Paesi sta mettendo in campo uno sforzo di ricerca e sviluppo senza precedenti, non esistono scorciatoie che possano accorciare i tempi necessari per comprendere i meccanismi della malattia e individuare quindi trattamenti efficaci.
Allo stato attuale la prevenzione e il rispetto delle misure di igiene e distanziamento sociale restano le principali armi per difenderci dall’infezione, proteggendo noi stessi e i nostri cari.