Coronavirus, Galli: la pandemia durerà ancora qualche mese
«In 42 anni di professione non ho mai visto niente del genere». Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, parla dell’epidemia da Coronavirus che ha colpito così duramente l’Italia, con 4.825 morti, 42.681 persone positive e 6.072 guarite. Ad oggi, in Italia sono stati 53.578 i casi totali.
Professore, il Covid-19 è fortemente letale o siamo noi che non siamo preparati ad affrontarlo?
In realtà questo non è un virus particolarmente letale, anche se non andrei a raccontarlo alle povere persone che hanno perso la vita e ai loro congiunti. Però il numero di coloro che hanno bisogno di assistenza è tale da superare le disponibilità dei letti degli ospedali. Questo è il vero problema. Anche se, in proporzione, il numero di casi gravi non è enorme rispetto al numero delle persone colpite dall’infezione. È però tale da aver messo in crisi il sistema sanitario lombardo.
La mancanza di letti e di attrezzature ha fatto dire a vari medici e infermieri che, in certi casi, bisogna scegliere chi curare. Secondo lei è comprensibile, accettabile, questa “selezione”?
Questo in linea di principio è inaccettabile. Sono stati fatti grandi sforzi da tutti per evitare che succedesse. Io non so se e quante volte sia veramente capitato che una persona sia rimasta indietro: credo che ci siano state piuttosto situazioni in cui non si è arrivati in tempo, per l’affollarsi di persone in attesa.
I primi a denunciarlo, con una lettera, sono stati gli anestesisti e i rianimatori…
Cosa sia successo possono dirlo i rianimatori e non io. Non è accaduto finora nel mio ospedale che qualcuno sia stato per scelta o per necessità non trattato al meglio. Lavoriamo però in condizioni di equilibrio molto fragile. In guerra, quando i feriti arrivano dal fronte agli ospedali militari, capita spesso di mettere sul tavolo operatorio chi se la può cavare prima di coloro che non hanno possibilità di farlo. Questa situazione non so se davvero si è venuta a verificare in questo periodo nei nostri ospedali, ma è comunque un dato di fatto che siamo sempre molto al limite, in una situazione che ci mette molto poco a collassare.
Quanto pensa che possa ancora durare la pandemia, visto che ancora non ha raggiunto il picco?
Non sono un indovino. Se qualcuno dovesse rispondere per piacere alla gente direbbe due o tre settimane e dovrebbe essere tutto a posto. Se uno dovesse rispondere con un po’ di ottimismo, che in parte potrebbe essere sostenuto anche dalla ragione, direbbe che se le misure che sono state prese funzioneranno e se soprattutto verrà fatto quello che va ancora fatto per contenere questo fenomeno, ce la potremmo cavare in qualche mese. Prendiamo la storia Wuhan: è una città di 11 milioni di abitanti su un territorio di estensione limitata, con una popolazione molto ‘concentrata’. Noi invece siamo in Lombardia: 10 milioni di persone su un territorio molto più vasto, mentre in Italia siamo 60 milioni di persone con una densità di popolazione notevole, ma non come in Cina. A Wuhan hanno riconosciuto i primi casi intorno al 9-10 di gennaio, dopo diverse settimane di libera circolazione del virus e si sono trovati ad avere una quantità crescente di casi. Adesso c’è il declino dell’epidemia. Si faccia due conti e li trasferisca su di noi. Se tiene conto dei provvedimenti attuati a Wuhan può anche dedurre quanto tempo ci vorrà.
Nelle varie regioni italiane il Sistema sanitario non ha mostrato i necessari livelli di efficienza.
Il problema è che l’attuale organizzazione regionalizzata di fatto non ha dato garanzie né di efficienza né di buon governo né di corretta amministrazione in gran parte delle regioni italiane e questo senza parlare di questa situazione specifica, ma di quanto è arcinoto anche in termini di deficit. Credo che questa sarà una lezione importante, anche per affrontare il futuro con serietà e portare un radicale miglioramento di condizioni e situazioni che allo stato attuale di efficienza non possono essere più tollerate.
La pandemia ha visto una grande collaborazione tra medici e ricercatori…
Giudico molto favorevolmente questa collaborazione, che però è un fatto atteso, nel senso che tutte le volte che c’è qualcosa di nuovo da affrontare parte questo “dibattito”. Non è un dibattito da salotto, ma per così dire un dibattito nell’attività, nel lavoro, nella ricerca di soluzioni. È l’anima della ricerca stessa. Si è stimolati a fare il meglio per capire di più delle emergenze.
Lei ha detto che i numeri del contagio da Coronavirus sono più alti di quelli comunicati, perché si conoscono solo i dati relativi ai casi più gravi, ai quali è stato fatto il tampone.
Il tampone è stato fatto in Lombardia quasi solo alle persone con una sintomatologia importante, quindi siamo in una situazione in cui è altamente verosimile che ce ne siano molte altre a cui l’infezione non è stata diagnosticata. Questo ovviamente aumenta la percentuale dei morti, perché se vai a calcolare i deceduti su quelli che stanno peggio e non su tutti è chiaro che avrai tassi di letalità più alti rispetto ad altri Paesi che fanno il test a tutti e calcolano la letalità su tutti i casi di infezione. Aver detto di non fare troppi test, visto che altri Paesi non li fanno, per evitare di sembrare di star peggio degli altri, è stato un errore. La malattia si rivela da sola, come si è visto. Per fare più test, però, bisogna avere anche più laboratori e una migliore organizzazione sul territorio. Fare meno test ci dà armi meno affilate per garantire la quarantena delle persone infettate ed evitare che l’infezione si diffonda di più. La preoccupazione è forte.
Che messaggio darebbe alla popolazione?
Siamo chiamati a rispettare le norme di distanziamento sociale senza se e senza ma. Senza nulla togliere alla solidarietà, la cui prima espressione è partecipare tutti a questa battaglia.