Coronavirus e videoconferenze
In questi mesi di impossibilità di rapporti “dal vivo” abbiamo scoperto come mezzo di relazione le videoconferenze. Zoom, Skype, sono diverse le piattaforme che ci stanno permettendo di riunirci, seppur virtualmente, permettendoci di portare avanti (forse a volte anche in maniera bulimica, senza più sabati e domeniche e momenti di stacco?) qualsiasi tipo di attività sociale e renderla quanto più possibile vicina alle modalità “offline” con cui siamo abituati a viverle. Apparentemente ci sembra una replica di ciò che già viviamo normalmente, ma è proprio così?
Gli organi di senso sono lo strumento principale con cui ci mettiamo in relazione con l’altro perché ci aiutano a filtrare e costruire la percezione che abbiamo del mondo. Fruendo le nostre relazioni attraverso uno schermo e una connessione digitale sacrifichiamo parte di questa percezione, perché qualcosa si “perde”, nel passaggio attraverso lo schermo.
Pensiamo ad esempio ad una videochiamata: a volte l’audio arriva in ritardo o male, così ci si parla uno sopra l’altro. Oppure l’audio si sente a scatti o si creano molti spazi di silenzio “imbarazzante” in cui chi riceve il messaggio sta in realtà aspettando che tutto il messaggio arrivi a destinazione o si rende necessario chiedere continuamente di ripetere.
La stessa cosa succede nella dimensione della vista, perché spesso non sappiamo dove guardare: se io voglio far vedere all’altro che lo sto guardando, devo fissare la webcam. Ma se fisso la webcam, perdo il mio contatto visivo con l’altro. Se invece fisso l’altro sullo schermo, avrà la sensazione che stiamo guardando il suo busto e non riuscirà a percepire il contatto visivo. Così, per quanto ci “vediamo” davanti ad una telecamera diventa difficile percepire il contatto visivo.
Nella videochiamate numerose, poi, dove ognuno di noi diventa un piccolo quadratino, diventa difficile mantenere lo sguardo sul quadrato di chi parla, e diventa quasi automatico, per risolvere l’imbarazzo, guardare il nostro, fare altro, scorrere la lista dei partecipanti e osservare gli altri (che sono poco consapevoli di essere su un palcoscenico e soprattutto non percepiscono di essere guardati). Alcune sono situazioni in cui ci troviamo anche nella dimensione offline, ma il digitale, rispondendo ad una sua intrinseca vocazione, amplifica e rende tutto più visibile.
Alla fine della videochiamata, ecco che arrivano quei 10 secondi di “vuoto”: un misto di solitudine e sospensione nel prendere consapevolezza che quel momento relazionale è finito. «L’host ha terminato il collegamento»: abbandonare la relazione con un click ci fa vivere il distacco in maniera molto più netta e veloce rispetto alla dimensione offline, dove la fisicità, tutto il rituale del saluto, degli abbracci, degli sguardi aiuta il distacco. Qui in un click ci ritroviamo nella nostra quotidianità, senza quel tempo di “allontanamento” che dobbiamo fare – lungo o breve che sia – per ritornare a casa. Perché ovviamente siamo già, a casa.
Scuola, lezioni, apertivi virtuali, incontri: a tanti sarà poi capitato di sentirsi stanchi dopo una lunga giornata “in video”. Questo è un fatto normale: quando interagiamo con gli altri attraverso lo schermo, il nostro cervello deve lavorare di più. Perché deve capire cosa sta succedendo e afferrare i messaggi attraverso pochi elementi, visto che mancano gli elementi fisici come il linguaggio del corpo, la visione periferica e spaziale. Così, mentre gli altri parlano, finiamo per accentrare la nostra attenzione sul farci un’idea della persona che parla più che le sue argomentazioni, finendo per avere l’attenzione catturata più dai poster appesi dietro che da quello che dice.
Secondo alcune ricerche, negli esami orali in videochiamata gli ansiosi lo diventano ancora di più, e se lo schermo mostra anche la propria immagine questo può portare a concentrarsi più sull’effetto che si fa sull’altro, minando la fiducia nelle proprie capacità. Diventa imbarazzante, non solo in un esame, la gestione del silenzio: non c’è nulla da dire o è un problema di tecnologia?
Le nostre relazioni digitali sono poi anche terreno di sviluppo di nuovi valori simbolici della percezione di sé. Si, perché attraverso una webcam permettiamo agli altri di entrare dentro al nostro spazio vitale quotidiano. Così tutto parla di noi: lo sfondo, i movimenti delle nostre mani, anche il nostro abbigliamento e diventa importante curare come mostrarci, cosa mostrare a chi entra dentro casa nostra. O, al contrario, se decidere di oscurarci, perché la percezione che dà di noi la telecamera può essere in effetti diversa dalla realtà.
Attraverso le videoconferenze stiamo racchiudendo la nostra dimensione sociale dentro ad un rettangolo, diventando il luogo privilegiato del racconto che facciamo di noi. E così il linguaggio visivo assume il ruolo di protagonista indiscusso e questo tutt’uno fa collassare la differenza tra reale e virtuale incorporando dentro di sé tutto il resto. Dentro alle videoconferenze siamo davvero infosfera.
Per alleviare quella che gli esperti chiamano la “Zoom Fatigue” il rimedio è molto semplice: lasciare passare del tempo tra una videochiamata e l’altra, mettendo dei veri e propri confini che ci permettano di riequilibrarci e riflettere e rimettere insieme le idee. Magari anche a ritrovando il senso del sabato e dei festivi.
Le videochiamate non hanno però solo aspetti negativi. Uno su tutti, hanno permesso a persone lontane o che per motivi di salute facevano fatica a spostarsi verso i centri fisici aggregativi di partecipare alla vita attiva di tante comunità. Sarebbe bello, quando potremo tornare ad incontrarci in un luogo fisico, capire se e come poter integrare, alternare, affiancare queste nuove modalità scoperte “per forza” a quelle che recupereremo. Perché anche da un punto di vista digitale, questa pandemia, possa essere servita per aprire orizzonti nuovi.