Coronavirus e crisi, la solidarietà comincia da noi

Il dibattito sulle misure da adottare per attenuare gli effetti economici della pandemia da coronavirus non ha ancora preso seriamente in considerazione la redistribuzione dei beni. L'esempio dei pastori, che donano una pecora a chi perde le proprie, e il congelamento del debito dei Paesi poveri.

«Tra i pastori sardi si è conservata un’antica tradizione. Quando a causa di una calamità naturale, o per altri motivi, un pastore perde il proprio gregge, ognuno dei suoi amici e dei suoi vicini gli dona una propria pecora». Questa pratica solidale, ricordata da suor Alessandra Smerilli nel libro Pillole di economia civile e del ben vivere, deve essere stata totalmente dimenticata dal popolo italiano, o almeno da chi conduce il dibattito pubblico sulla crisi economica creata dal coronavirus.

L’epidemia da Covid 19 ci ha costretti a fermare tante attività produttive per evitare la diffusione del contagio. Milioni di nostri concittadini non hanno potuto dunque guadagnarsi un reddito gestendo o lavorando in bar, ristoranti, alberghi, negozi, trasporti,… con una perdita di valore prodotto (gran parte del quale va in reddito delle famiglie) dell’ordine di 48 miliardi di euro per ogni mese di continuazione della chiusura (la stima è del Centro di ricerche SVIMEZ). Un valore che – perdonate questa piccola curiosità – corrisponde al valore di una sessantina di milioni di pecore, neanche a farlo apposta una per italiano.

Sul fatto che una compensazione ai danneggiati vada data c’è, per fortuna, un generale accordo. Resta il problema di chi debba contribuire. Il primo a cui si è pensato è lo Stato, ma ci si è subito resi conto che i suoi ovili non sono abbastanza forniti, né sarebbe riuscito a farsi prestare quelle mancanti, perché già in debito di troppe pecore. A questo punto il dibattito pubblico si è immediatamente orientato verso le greggi delle pianure del nord Europa e per settimane non abbiamo parlato d’altro che della trattativa che i nostri governanti hanno aperto con i loro omologhi di quei Paesi e con le istituzioni europee.

Ma per un tempo politicamente interminabile nessuno ha pubblicamente osato mettere in campo l’idea più ovvia: chiedere a noi che non siamo stati impoveriti dal resta-a-casa di attingere alle nostre greggi illese per aiutare a ricostituire quelle che sono andate perdute, non per imprevidenza o per sfortuna, ma per salvarci la pelle. Solo pochissimi giorni fa, una volta divenuto evidente che non avrebbero pagato tutto gli stranieri, qualche malcapitato leader politico ha fatto l’errore di pronunciare quella parola maledetta, tassa, con il risultato prevedibile della pubblica lapidazione. Gli argomenti per impallinare la proposta sono stati i più vari, dal classico «ancora una volta si va a pescare da chi ha sempre contribuito, mentre gli evasori se la ridono», al più truculento «vogliono mettere le mani negli ovili degli italiani».  Di “paradura” (pareggiamento, in lingua sarda) non se ne vuole parlare, in base al tacito principio:«Che paghi qualcun altro, io pecore non ne scucio». Questo è purtroppo lo stato di assuefazione demagogica della nostra opinione pubblica.

E il problema non si ferma certamente all’Italia o alle dispute europee. Proprio in questi giorni Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia e già capo economista della Banca Mondiale, ha lanciato l’allarme sul debito dei Paesi più poveri. Anche lì si manifesta la stessa contraddizione, e in maniera ancora più drammatica: con l’emergenza coronavirus chi vive di lavoro, se lo facciamo restare a casa perde tutto; al contrario, chi vive ricevendo interessi non solo non ha bisogno di uscire di casa per incassarli, ma la cifra che gli spetta non risente di crisi o epidemie. Detto in altre parole, la pandemia da coronavirus ha reso più evidente che mai la necessità di una grande redistribuzione nella direzione opposta alla gigantesca concentrazione della ricchezza verificatasi a partire dagli anni ’80. Lo chiede, in aggiunta, l’impellente necessità di rafforzare i sistemi sanitari dei Paesi meno pronti a far fronte ad un’epidemia. Una prima risposta, il congelamento di questi debiti, è già venuta dal G20, ma molto probabilmente servirà una definitiva cancellazione.

Impariamo dai pastori sardi: chi nonostante la crisi ha gli ovili pieni si metta una mano sulla coscienza (civile) e faccia la sua parte.

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