Coronavirus e crisi economica, compromesso nell’Eurogruppo
Nella sera del 9 aprile 2020, mentre il governo italiano annunciava la conferma del lockdown fino al 3 maggio, è arrivata la notizia dell’accordo di compromesso nell’Eurogruppo, il coordinamento dei ministri delle Finanze dei 19 Stati membri che adottano l’euro.
Annunciato un pacchetto che prevede lo stanziamento di 200 miliardi dalla Bei, 100 miliardi del nuovo programma SURE per la cassa integrazione, la possibilità del ricorso al Mes, senza condizioni, per altri 200 miliardi solo per le spese sanitarie. Il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, ha, comunque ribadito, nella conferenza stampa serale del 10 aprile, che il Mes esiste dal 2012, per scelta di altri esecutivi precedenti, ma si tratta di uno strumento che il governo attuale non ritiene di attivare. Anche nelle forme ridotte e mirate previste dall’ accordo dell’Eurogruppo.
Ma ciò che più rileva è la previsione di un “Fondo per la Ripresa” finanziato da debito comune europeo. I dettagli di questo fondo, che avrà tempi di realizzo non brevi, saranno definiti dopo Pasqua nell’incontro, sempre via web, del Consiglio europeo che raduna i capi di stato o di governo degli Stati membri dell’UE.
I commenti all’accordo sono contrastanti. Da chi lo propone come un successo della solidarietà europea a chi, invece, non vede altro che una ennesima trappola per il nostro Paese. Trattandosi di scelte decisive per il nostro futuro ci si aspetterebbe un passaggio urgente in Parlamento prima del Consiglio europeo.
Mai come in queste ore, infatti, l’Unione europea sta rischiando di rompersi davvero in tanti pezzi con effetti inimmaginabili a livello planetario e, concretamente, sulla vita di miliardi di persone.
Lo scontro sulle misure economiche comuni da approntare a livello dei Paesi europei sta sollecitando l’analisi storica, prima ancora delle enormi cifre in gioco. Ursula von der Leyen ha fatto riferimento al piano Marshall dell’immediato dopoguerra di un continente ridotto alla fame.
Il citatissimo intervento di Mario Draghi è eloquente non solo perché usa un paragone ovvio con lo stato di guerra ma perché intravede, nella situazione attuale, una forte analogia con gli anni ’20 del secolo scorso, quelli cioè che prepararono il conflitto mondiale segnato dal punto di non ritorno della bomba atomica. Con il senno di poi, tutti concordano adesso con la tesi dell’economista Keynes che previde le conseguenze disastrose del trattato di Versailles del 1919 che umiliò la Germania sconfitta della “grande guerra”. Tante banalità ed errori possono ripetersi di nuovo, senza che la storia ammaestri i posteri.
È necessaria una montagna di soldi per far fronte ad una situazione senza precedenti. E bisogna che tali risorse entrino in circolo senza che chi è costretto a chiedere aiuto rimanga strozzato da condizioni e interessi che ne possono solo posticipare la data del decesso.
Come ha spiegato bene Giovanni Farese, storico del pensiero economico, sulla rivista dell’Aspen Insitute, l’European Recovery Program (ERP) promosso dagli Usa nel 1947 fu ideato dal segretario di Stato Usa come «un baluardo contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos».
Ma era costituito «da “grants” (donazioni) e “loans” (prestiti, ma a basso tasso di interesse)» per una cifra di 13 miliardi di dollari che si possono paragonare a circa 150 miliardi attuali. Una cifra risibile se confrontata con i numeri astronomici, tra 1.000 e 1.500 miliardi di euro, esplicitati dalla presidente della Banca Centrale europea, Lagarde. In linea con i 2 mila miliardi di dollari messi in campo oltre oceano da Trump in una repubblica federale che conta meno abitanti dell’Europa (330 milioni contro 500) e in sole tre settimane di blocco già conta 16 milioni di disoccupati, con le fosse comuni scavate a New York per le migliaia di morti colpiti dal virus.
Come osserva Farese, oggi non ci sono le condizioni di un piano straordinario esterno da parte di una grande nazione come erano gli Usa, i vincitori di allora, senza macerie in casa, proiettati a costruire una zona di influenza contro il nemico sovietico. Anzi, come notano tutti, l’attuale dirigenza della Casa Bianca è ostile all’unità europea come ha dimostrato con il sostegno all’uscita della Gran Bretagna. Un’Europa divisa è più facilmente contendibile nello scontro tra Usa e Cina.
L’unica strada per non disgregarsi resta, appunto, quello di finanziare un grande progetto comune “degli europei per gli europei” di rinascita economica. Giuseppe Vita, manager italiano con posizioni apicali in società tedesche e ottimi rapporti con la cancelliera Merkel, ha detto a Il Sole 24 ore che a Berlino sanno bene che «l’Unione europea può fare a meno del paradiso fiscale dell’Olanda, ma non di Paesi come Italia, Spagna e Francia». Per ragioni che varrà la pena approfondire i Paesi Bassi, 7 milioni di abitanti, hanno adottato una linea di chiusura verso i Paesi come il nostro che presenta un alto livello di indebitamento pubblico.
Affermazioni durissime che rendono il clima dello scontro avvenuto sulla trattativa dell’Eurogruppo in vista del Consiglio di Europa previsto per dopo Pasqua. A favore delle ragioni della solidarietà europea si sono esposti non solo il partito dei verdi tedeschi, ma anche l’autorevole settimanale Der Spieghel e l’ex cancelliere Gerhard Schröder, che addirittura ha osato ricordare l’aiuto ricevuto dal suo Paese dopo il secondo conflitto mondiale. Nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, l’ex leader socialdemocratico ha auspicato uno strumento di debito comune, ma non gli eurobond (chiamati anche coronabond o solidarity bond) che richiederebbero, a suo parere, tempi troppo lunghi di attuazione.
Un sostegno implicito a quanto uscito fuori dal compromesso del 9 aprile, simile al pre accordo franco tedesco imbastito negli ultimi giorni e a quanto proposto sul sito dell’osservatorio dei conti pubblici italiani dall’ex presidente del consiglio italiano Enrico Letta con Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli.
Soddisfatto il presidente del parlamento europeo David Sassoli che ha parlato di «un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese e il Fondo per un piano di rinascita».
Il successo dell’intera operazione dipenderà dal funzionamento effettivo del Recovery Fund e dai tempi di finanziamento che dovrebbero essere immediati per essere efficaci. Sicuramente non sarà come il piano Marshall citato più volte in questi giorni e che il nostro ministro dell’economia Roberto Gualtieri conosce bene per la sua competenza di storico. Il limite del politico di fronte allo studioso è quello di dover agire in tempi e condizioni estreme. E Conte ha ribadito l’intenzione di continuare a lottare senza sosta per introdurre gli eurobond nell’incontro decisivo del Consiglio europeo del 16 aprile.
Per un cambio reale di paradigma, come ha ribadito Stefano Zamagni nell’intervista del 9 aprile all’Osservatore Romano, si dovrebbe rivedere il trattato di Maastricht del 1992 che ha istituito l’Unione europea. Ma nel frattempo bisogna agire in fretta perché, come fa notare lo stesso economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, «se entro due mesi la situazione non si risolvesse, si potrebbe cominciare a morire non solo per il virus ma anche per denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria».