Coronavirus e comunità cristiana

Alcune domande a Guido Miccinesi, epidemiologo, ricercatore conosciuto a livello internazionale, incaricato regionale per la Pastorale della salute nella diocesi di Firenze.

Le chiese sono rimaste vuote in molte città italiane in questo inizio di Quaresima “segnato” – così come molte altre realtà della vita pubblica – dall’emergenza coronavirus. Una scelta dolorosa, che qualcuno ha messo in discussione per la radicalità dell’annullamento delle celebrazioni e di qualsiasi evento che prevedesse partecipazione pubblica (matrimoni, funerali…). Per altri, un opportuno segno di adesione alla vita civile.

Abbiamo rivolto alcune domande a Guido Miccinesi, figura particolarmente adatta ad aiutarci in questa riflessione: Guido è medico, lavora da molti anni nella struttura di Epidemiologia dell’Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica di Firenze ed è un ricercatore conosciuto a livello nazionale e internazionale. Ma è anche diacono permanente e incaricato regionale dell’ufficio per la Pastorale della Salute della diocesi di Firenze.

Tra emergenza virus e bisogno di comunità. Dal suo (duplice) punto di vista i provvedimenti sono stati opportuni o, come è stato detto, ci siamo fatti prendere la mano dalla grande protagonista del tempo: la paura?
Il passato ci insegna che i cristiani amavano tutti, questa è la lezione perenne. Che oggi significa rispettare quelle norme di sanità pubblica necessariamente rigorose, anche quando potrebbero sembrare fin troppo drastiche per le nostre chiese che non sempre sono luoghi di “assembramento”.

La paura esiste perché non tutti quelli che contrarranno l’infezione possono essere certi di superarla; la percentuale di insuccesso è bassissima se commisurata con malattie gravi come il cancro o altre malattie, infatti il 97,5% dei contagiati ne verrà fuori bene; ma questa infezione, se corresse come le normali influenze e come sappiamo essere perfettamente in grado di fare, arriverebbe a milioni di persone ed è facile fare due calcoli. Soprattutto bisogna evitare, anche pagando qualcosa in termini di immagine internazionale e di danno economico, che troppe persone contemporaneamente abbiano bisogno delle terapie intensive per le lesioni polmonari che il virus dà e che in una certa percentuale di casi sono particolarmente intense. Insomma abbiamo un obiettivo comune e importante: rallentare la diffusione del virus, mettergli il bastone fra le ruote.

Nel suo incarico pastorale lei ha uno sguardo privilegiato sugli assistenti spirituali delle strutture sanitarie e sui tanti volontari che si recano dai malati nei reparti e nelle case. Da epidemiologo, quali indicazioni concrete le sembrano più opportune in questi giorni?
Gli assistenti devono attenersi alle norme che seguono scrupolosamente gli altri operatori sanitari, ad esempio lavarsi le mani all’ingresso e all’uscita da ogni stanza; inoltre come l’ufficio nazionale di pastorale della salute ha già disposto devono evitare in questo periodo il contatto fisico e depositare l’ostia della S. Comunione sulle mani del malato. Devono inoltre svuotare le acquasantiere delle loro cappelle ospedaliere, evitare che i fedeli si diano la mano al Padre Nostro e allo scambio della pace. Infine consiglierei loro, particolarmente in questo periodo, di farsi trovare un po’ in cappella a pregare, anche in silenzio: in quei momenti di preghiera torna una gran pace anche nel più inquieto tra noi. Quanto ai volontari mi pare, stavolta proprio da epidemiologo, che in questo periodo aumentino in modo indebito la probabilità di esposizione dei malati: io consiglierei di sospenderli per un po’, che non diventino ‘vettori’ dell’infezione contro ogni loro intenzione.

Da molti anni lei si occupa di cure palliative, dagli studi epidemiologici, agli aspetti spirituali della cura, al volontariato. Intravede un rischio di maggior solitudine in questa “crisi”, sia per chi si avvicina alla fine della vita, sia per chi vive il lutto? Quali le sembrano le risposte di una comunità cristiana matura e autentica?
Quando si apre il percorso della inguaribilità, si apre in modo singolare e non plurale: quella persona, quell’assistente spirituale, quel medico… Non ci sono cioè problemi di assembramenti e di eccessiva esposizione all’infezione, gran parte della presenza si fa al domicilio del malato: certo l’attenzione al lavarsi le mani sarà doppia rispetto a prima. Il contatto fisico può essere limitato perché lì -parlo dell’assistente spirituale- sono le anime che si toccano, in molteplici modi.

La comunità cristiana matura vive nella storia, sa che il suo Signore ha dato a lei il mandato di attraversare tutta la storia e quindi partecipare a tutto fuorché al peccato. Lo diceva già la lettera a Diogneto alla fine del primo secolo, ripresa anche dal Concilio Vaticano II: i cristiani vivono la vita di tutti gli altri, non vestono né mangiano né parlano in modo speciale. Solo stanno attenti a non fare il male, altrimenti l’annuncio di bene a loro affidato fallisce. Quindi se gli altri lottano perché una epidemia non corra il cristiano è lì: non scappa, prende le sue responsabilità, e continua ad essere vicino agli ultimi, come da migliaia di anni, da quando il Signore ci ha indicato che lì è la nostra felicità e la sua gioia.

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