Coronavirus e media

Qualche riflessione sulle implicazioni mediatiche della pandemia: luci ed ombre, e la conferma che il mondo in 30 anni è cambiato radicalmente e non si può più tornare indietro dopo la rivoluzione digitale

Nelle ordinanze di chiusura delle città del mondo intero, una particolare attenzione viene riservata ai negozi di prodotti informatici e di telefonia, che generalmente vengono salvati dalla serrata. Perché ormai i nostri smartphone, i nostri tablet e i nostri computer sono il filo che ci tiene collegati al mondo, assieme alle tv e alle radio che stanno ritrovando una loro centralità nelle nostre vite recluse, a testimonianza che generalmente i media si affiancano ma non si sostituiscono. Perché dei media non possiamo più fare a meno.

Così le uniche aziende che stanno gongolando per la crisi del Covid-19 (assieme a quelle legate ovviamente alla salute, farmaceutiche in testa, ma anche alimentari) sembrano essere quelle del digitale, in particolare quelle che offrono software e non hardware (in soldoni i programmi per l’uso dei nostri strumenti digitali e non gli strumenti fisici stessi), quei colossi che fatturano più di grandi Stati come la Svizzera o la Spagna stessa. Mentre le grandi multinazionali o transnazionali dell’energia, per fare un esempio, vivono momenti bui, il comparto digitale sembra avere il campo libero dinanzi a sé per un trionfo forse definitivo. Una “dittatura” di Mr Facebook, di Mr Google o di Mr Alibaba potrebbe essere pericolosa, se non fatale, per la libertà di noi tutti.

Ma qualcosa di nuovo forse sta emergendo dal marasma del Covid-19: ci si sta rendendo conto che i problemi non solo sono sopranazionali, ma addirittura transnazionali e globali, planetari. Abbiamo sistematicamente smantellato le autorità internazionali, come l’Onu, l’Unesco, la Fao… e ora invochiamo un’autorità mondiale che possa mettere tutti d’accordo e prendere le misure salvifiche. Ma quest’autorità non c’è più. Xi prima soffre poi gongola, Trump prima gongola e ora soffre, Lagarde prende fischi per fiaschi, Merkel profetizza sventura, Macron evoca ancora la grandeur anche nella tragedia, ogni governo prende le misure che può, stando sempre attento alle prossime scadenze elettorali… Ma chi dirige tutti questi “capetti”? Nessuno. La lezione ha colpito nel segno: c’è bisogno di autorità transnazionali, sia per la politica che per il digitale.

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In tutto ciò il sistema mediatico appare centrale. Anche qui, nel bene e nel male. Da una parte i social diventano uno spazio libero su cui si diffonde ogni sorta di notizie, anche le più strampalate, in un’incredibile effervescenza di fake news, spesso veicolate inconsciamente dagli stessi potenti. Ma nel contempo questa agorà pubblica digitale è il luogo delle comunicazioni di servizio più efficaci, della solidarietà spontanea e molteplice e “contagiosa”, dell’umorismo che svolge un’importante ruolo di sdrammatizzazione. E appaiono qua e là degli antidoti alla falsità cosciente e alla leggerezza incosciente. Così i “vecchi” media conoscono una nuova diffusione a causa della loro autorevolezza: quando c’è da capire se una notizia è vera o falsa, se una lettura degli eventi è credibile o no, si ricorre ai valori sicuri. Le testate più autorevoli, allora, ritrovano un loro spazio centrale, al punto che stanno mettendo in atto delle strategie commerciali meno esose, anche per non apparire come degli sciacalli che approfittano della tragedia del coronavirus.

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Le televisioni e le radio trovano così un loro nuovo spazio, e sembra che riconquistino “fette di mercato”, perché stando chiusi in casa la loro compagnia spesso è indispensabile per non ritrovarsi nella solitudine più atroce, e per informarsi in tempo reale di quanto sta accadendo. Poco alla volta, di fronte alle cifre che possono diventare un incubo, la moderazione dei giornalisti si fa spazio, dove più dove meno, perché ci si rende conto della potenza che può avere una parola sbagliata sulla gente, un po’ come una parola sbagliata o non opportuna della presidente della Banca europea ha fatto perdere i listini del mondo intero di qualche punto percentuale, centinaia di miliardi.

Persino i giornali quotidiani e i magazine patinati trovano una loro nuova vita: non a caso le edicole rimangono quasi sempre aperte, e nella reclusione chi usa la scusa di acquistare l’amuchina e il pane per una breve uscita di casa (un’ora di libertà, come nelle carceri) spesso torna tra le mura domestiche con un quotidiano sotto il braccio. E i libri? Certamente conoscono una nuova primavera, anche se le condizioni più che favorire l’industria dell’edizione (le librerie sono quasi tutte chiuse) fanno tornare la voglia di leggere qualche vecchio classico impolverato sulle scansie di casa, che ne so, La peste di Camus o I Promessi Sposi del Manzoni, o perché no, La Bibbia stessa. E forse una tale abitudine ritrovata porterà anche frutti più duraturi per le nostre asfittiche case editrici.

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I media, dunque, strumenti solitamente privilegiati per coltivare l’inquietudine irragionevole di tutti noi e per distrarci con mille spettacoli – anche a fini politici, per farci distogliere lo sguardo da quello che bisognerebbe guardare e che i potenti non vogliono che si guardi –, in fondo stanno mutando pelle, diventando strumenti per rassicurarci. Che sia un’informazione realistica e moderata sul coronavirus, che siano le messe mattutine da Assisi o dal Vaticano o da San Giovanni Rotondo, che siano i programmi di intrattenimento politico in cui finalmente non ci sono i politici al centro ma gli scienziati (cioè chi sa e non chi non sa ma vuol far crede di sapere), qualcosa cambia. Sembra che vi sia più coscienza della realtà, dell’unica realtà che stiamo vivendo in tutto il pianeta o quasi, chi nella fase ascendente del picco, chi in quella discendente, chi nell’angoscia dei primi casi di contagio, chi dopo i primi starnuti.

Papa Francesco, tra i suoi slogan più noti, ne usa un molto intrigante: «Lasciatevi interrogare dalla realtà». Con ciò vuol dire che non dobbiamo inventarci bisogni che non esistono, non dobbiamo crearci scenari inesistenti. Abbiamo vissuto troppo tempo nel sogno o nell’illusione, abbiamo per troppo tempo pensato di essere i padroni della realtà perché dipendente dalle nostre facoltà – ricordate quegli sciagurati slogan tipo «la politica del fare» –, purtroppo a lungo abbiamo voluto mascherare la stessa dura realtà con ogni sorta di orpello effimero. Ma la realtà prima o poi ci raggiunge sempre, se non altro nel momento della morte. E il Covid-19 ci riporta alla morte e alla sua prospettiva, così come alla vita e alla liberazione. I media – vecchi o nuovi, comunque dedicati a “creare canali di comunicazione” tra gli umani – possono essere, anzi sono strumenti privilegiati in questa rinnovata considerazione della realtà.

«La verità vi renderà liberi», disse qualcuno 20 secoli fa con la sua visione rivoluzionaria. O, detto altrimenti, con la penna diversamente visionaria di George Orwell: «In tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario».

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