COP26, da Glasgow a Bruxelles passando per Roma

Le conclusioni della conferenza ONU sui cambiamenti climatici (COP26)  rilanciano l’urgenza di scelte politiche e sociali per la Giusta Transizione in Italia ed in Europa
COP26 (AP Photo/Alastair Grant, File)

Nella COP26 di Glasgow, (26ma conferenza ONU sui cambiamenti climatici), ha prevalso il modello già visto nel G20 di Roma: una cornice condivisibile, ma in assenza di impegni precisi e misurabili, con diverse scappatoie per chi la lotta ai cambiamenti climatici non vuole farla nei tempi che l’IPCC ( Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) ha indicato come dirimenti.

«Penso che possiamo dire in modo credibile che abbiamo mantenuto vivo l’obiettivo di 1.5 gradi. Ma il suo impulsò è debole […] rimane un abisso tra gli obiettivi a breve termine e ciò che è necessario per raggiungere l’obiettivo di Parigi. Quel lavoro deve iniziare ora». Così il presidente della COP26, Alok Sharma, di fronte all’Assemblea che ha approvato il Patto per il clima di Glasgow, ha riassunto i risultati ottenuti e la sfida aperta, su cui incombe quell’abisso.
Vediamo nel dettaglio cosa è emerso.
Obiettivo di Glasgow non era un nuovo Accordo, ma “finalizzare” l’Accordo di Parigi del 2015. In questa direzione si possono registrare alcuni passi avanti.

Primo fra tutti l’acquisizione dell’obiettivo, suggerito dall’IPCC, di puntare a mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C, che implica una riduzione globale, ma differenziata per le diverse aree del pianeta, del 45% delle emissioni rispetto al 2010 entro il 2030.
Un obiettivo molto ambizioso, considerando che, se le previsioni della IEA-Agenzia Internazionale per l’Energia rassicurano su un aumento a fine secolo di 1,8°C, calcolate su tutti gli impegni promessi da qui al 2050, più realisticamente il Climate Action Tracker valuta che se si considerano solo gli impegni effettivi presi da qui al 2030 le temperature potrebbero aumentare fino a 2,4°C a fine secolo. Intanto già oggi siamo ad un aumento di 1,1°C!

Nel Patto di Glasgow l’urgenza non viene rimossa, ma gli impegni diluiti. Il più stringente riguarda la COP27 del prossimo anno, quando andrà definita la revisione verso l’alto degli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 per tutti i Paesi. Con indicazioni per una maggior trasparenza ed una contabilità più frequente su quanto stanno facendo gli Stati.
Un altro risultato positivo, paradossalmente, verrebbe da dire, visto che è stato la causa principale dello sconforto finale di Sharma, consiste nel fatto che per la prima volta compaiono i combustibili fossili in quanto principale causa della crisi climatica, anche se con evidenti e preoccupanti limitazioni: per il carbone, per l’opposizione soprattutto di India e Cina, si parla solo di “riduzione” e non di “eliminazione”, e solo per le centrali senza sistemi di cattura e stoccaggio della CO² (CCS), mentre per gli altri combustibili si parla solo di blocco dei sussidi “inefficienti”.

A latere ci sono poi stati alcuni Accordi settoriali, sottoscritti da Paesi a geometria variabile, che danno qualche segnale positivo anche se spesso con scappatoie e possibili rinvii.
Parliamo dell’accordo sulla deforestazione al 2030, sottoscritto da 124 stati che si sono impegnati con investimenti privati e pubblici per 19 miliardi di dollari e che coprono circa l’85% del patrimonio forestale globale. C’è poi la riduzione al 2030 del 30% delle perdite di metano, dall’estrazione ai gasdotti, sottoscritta da 105 Paesi, ma senza Cina Russia e Australia. Sulla diffusione dei veicoli elettrici, sottoscritto da 22 Paesi e alcune grandi case produttrici, perché i nuovi veicoli siano tutti elettrici tra 2035 e 2040.
Infine l’adesione dell’Italia, anche se in seconda fila, al BOGA – Beyond Oil and Gas Initiative,un’alleanza di un piccolo gruppo di Paesi che si impegna ad eliminare i finanziamenti per il fossile.

Molto insoddisfacente, invece, rimane tutta la parte finanziaria sia in riferimento a quanto deliberato già a Copenaghen nel 2009 (100 miliardi anno versati dai Paesi ricchi per finanziare l’adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi poveri), sia per quanto riguarda la costituzione di un fondo per riparare i danni della crisi climatica nei Paesi poveri più esposti (loss and damage).

Sul primo aspetto ci si è affrettati a ricordare che ad oggi i Paesi impegnati nel finanziamento hanno coperto circa 80 miliardi, tra prestiti e sovvenzioni, che secondo Oxfam, depurati da restituzioni, interessi pagati e costi finanziari, si riducono a 19-22,5 miliardi reali trasferiti ai Paesi poveri. Su tutto ciò, comunque, non si è andati al di là di dichiarazioni d’intenti ed inviti ai Paesi ricchi a spendere da 5 a 10 volte di più.

Ed è proprio a partire da qui che occorre una riflessione più attenta.
A Glasgow si è definitivamente delineato lo scenario mondiale con cui dovremo misurarci nei prossimi anni.
Siamo ormai immersi in una nuova geografia che divide il mondo in due, tra chi ha come problema principale la mitigazione, con investimenti per sostenere la transizione energetica, e quei Paesi che già oggi subiscono i danni dell’impatto climatico e hanno come urgenza prioritaria quella dell’adattamento.

Uno scenario che pone anche una questione di democrazia politica e sociale. Il ruolo determinante di governi autoritari e negazionisti, la presenza di 503 lobbisti dei combustibili fossili, come documentato da Global Witness, che sono diventati la delegazione più numerosa di tutta la Conferenza, il confinare il tema della giustizia climatica nella premessa, l’inesistenza di un qualunque accenno a investire soprattutto verso chi, nei Paesi poveri e nei paesi ricchi, è più esposto agli effetti della crisi climatica (fatta eccezione per un riferimento alla «giusta transizione», citata a proposito della riconversione dei lavoratori del settore fossile).

Tutti segnali che ci dicono che tutta l’attenzione è rivolta alle tecnologie, nell’indifferenza per le contraddizioni sociali, meglio conosciute come disuguaglianze, che segnano la nostra epoca nei Paesi poveri e nei Paesi ricchi.

Infine il ruolo dei movimenti sociali e dei giovani. È merito loro se il tema della giustizia climatica è stato comunque in campo in questi 15 giorni. Ma cosa succederà alla prossima COP che si terrà in Egitto, che come sappiamo non brilla certo per democraticità e spazi lasciati alla libera espressione della società civile?

Se a tutto ciò aggiungiamo che uno dei fatti più significativi che hanno accompagnato la COP26 è stato l’accordo tra Cina e Usa con l’istituzione di un Comitato bilaterale per arrivare ai 1,5°C. emerge quello che forse è il risultato più rilevante: con la COP26 la questione climatica non solo è stata definitivamente ed inequivocabilmente promossa tra le due o tre grandi emergenze globali del nostro tempo, ma soprattutto è quella attraverso cui è necessario guardare alle altre grandi emergenze, con il coraggio, la forza e la lungimiranza per tenere insieme tecnologia, scienza, democrazia e giustizia sociale.
Da Glasgow inizia una nuova tappa nella politica globale, con più chiarezza nelle strategie e consapevolezza delle sfide, con ancora molte debolezze nella definizione dei passi concreti e della loro tempistica, in cui le resistenze ed i rapporti di forza nella distribuzione del potere decisionale sono tutt’altro che risolti.
Una tappa che si deve misurare concretamente con le scelte che in ogni Paese vanno fatte a partire da domani. E questo messaggio riguarda anche l’Europa e l’Italia. Un’Europa deludente che non ha svolto alcun ruolo, irretita dalle sue dinamiche interne che stanno portando ad inserire nella Tassonomia degli investimenti sostenibili anche nucleare e metano. Ed un’Italia, che rischia di perdere l’occasione del PNRR perché troppo vincolato al metano ed al vecchio modello di sviluppo e troppo indifferente alle dinamiche sociali.

Un’Italia che deve invertire le tendenze degli ultimi anni nel rallentamento dello sviluppo delle energie rinnovabili, che l’anno condannata a scendere al 30° posto, regredendo di tre posizioni nel Climate Change Performance Index , poche posizioni sopra la Cina, attestata al 37° posto.

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