Cooperazione o barbarie?
«Cittadini, mi è venuta un’idea politica originale: nel trattare con le altre regioni o nazioni, facciamo i nostri interessi!».
«Finalmente uno che parla chiaro! Basta con tutti questi vecchi discorsi sulla responsabilità! Ti seguiremo». E così i propri interessi riesce a farli certamente il leader, mentre agli altri resteranno ben presto le macerie. Perdonate il sarcasmo, ma stupisce vedere l’ingenuo entusiasmo con cui la più vecchia, trita e disastrosa impostazione delle relazioni tra i popoli e le nazioni viene oggi accolta come un promettente nuovo corso.
Qualcuno lo proclama apertamente che i nostri interessi vengono prima di ogni altra considerazione: “America first”, l’America prima di tutto, è stato uno slogan di grande successo, prontamente ripreso anche in campagne elettorali europee. Altri leader politici lo dicono meno chiaramente, ma il senso delle loro affermazioni è lo stesso: «Perché rispettare un accordo di cooperazione internazionale in un momento in cui ci farebbe comodo violarlo? Gli accordi sono un’idea vecchia!».
A rischio di esagerare un po’ si potrebbe dire che l’uscita della storia dalla barbarie sta proprio nell’aver imparato a sfuggire, almeno un po’, alla logica dell’interesse particolare, dei singoli o dei gruppi. Quella logica che, quando capitasse l’occasione buona, suggerisce di infischiarsene dei calumet della pace fumati dai capi tribù, visto che assaltare e saccheggiare di sorpresa il villaggio vicino garantisce un buon bottino; ma che, guardando un po’ più in là, condanna tutti i villaggi ad una successione di massacri e devastazioni. O anche, meno tragicamente, quella logica che – mentre un servizio di guardia notturna potrebbe migliorare la sicurezza nel palazzo – suggerisce di dichiararsi disinteressati alla cosa, perché lasciando che a pagare siano gli altri avrò un bel risparmio; peccato che procedendo con questa logica il servizio di guardia forse si avvierà tra cinquant’anni.
Potremmo continuare con la desiderabilità di accordi di regolamentazione dell’import/export che permettano ai consumatori di beneficiare dei beni prodotti all’estero (vi ricordate i tedeschi orientali che dovevano forzatamente accontentarsi delle Trabant, auto – diciamo – non molto performanti prodotte all’interno delle loro frontiere) e che permettano anche ai produttori di beni di buona qualità di trovarsi degli sbocchi fuori dai propri confini (penso allo spumante italiano che sta facendo furori, non solo al di qua, ma anche al di là della Manica).
Cos’è l’Unione Europea, cos’è l’Organizzazione Mondiale del Commercio, cosa sono le altre organizzazioni internazionali, se non il risultato dello sforzo decennale di leader lungimiranti di costruire sistemi di collaborazione che ci hanno fatti uscire dalla condizione di aperta conflittualità (militare, commerciale,…) che ha dominato la storia del mondo, uno sforzo tanto più grande quanto più forte era l’effetti frenante delle istituzioni preesistenti, dei piccoli o grandi interessi consolidati e degli immancabili demagoghi.
Lo so che sto facendo un racconto tutto a tinte luminose, ma il punto di partenza per discutere di accordi regionali, internazionali, ecc. liberamente sottoscritti è tenere molto ben presente che la loro caratteristica tipica è il mutuo vantaggio, ossia una situazione migliore per tutti i partecipanti rispetto al restare intrappolati in una negativa situazione di generale “non-cooperazione” (un’espressione che in certi casi sta per “non contribuire ad un progetto di interesse comune” e in altri sta addirittura per “conflitto”).
Per dirla in termini più generali, si tratta della tragica contraddizione tra razionalità individuale o di gruppo (quale scelta dà il massimo vantaggio a me/noi?) e razionalità collettiva (quale scelta fatta da tutti gli attori garantisce a tutti una situazione migliore?), un problema onnipresente nella sfera economica, politica e sociale.
Certo, nel mondo reale nessun accordo è perfettamente equo nella distribuzione di benefici e costi tra i soggetti partecipanti, per cui qualcuno ne trae un vantaggio grande e qualcun altro un vantaggio piccolo. In certi casi succede anche che per qualche partecipante il saldo tra benefici e costi dell’accordo risulti essere negativo; una situazione certamente da correggere, ma il buon senso suggerisce di non passare direttamente agli insulti, ai boicottaggi o ad altre pratiche ostili, perché in genere un attore (tanto più quando si tratti di uno stato nazionale) è legato agli altri attori non solo da quello, ma anche da molti altri accordi e, mettendoli tutti insieme, di solito ciascuno avrebbe molto da perdere dalla loro interruzione.
Il triste destino di molte forme di collaborazione è che il tentativo delle parti di spostare a proprio vantaggio la ripartizione dei benefici che esse complessivamente assicurano finisce per spaccare tutto. È per questo che aizzare l’opinione pubblica contro i nostri partner è una politica che la storia insegna essere disastrosa. Forse quei leader non lo capiscono; o forse sì, ma ai fini della loro carriera fare la voce grossa pare che convenga. L’importante è che lo capiscano i cittadini: sostenere quegli atteggiamenti è dare un premio all’irresponsabilità.