Conversando con “nonna Titti”
Venticinque anni di ininterrotto volontariato ospedaliero sono davvero un bel traguardo, e non a caso nel luglio scorso l’ufficio diocesano della pastorale sanitaria di Roma li ha premiati con un significativo riconoscimento. A ricevere quest’anno la targa del “Buon samaritano” è stata Giovanna Candusso, una vivace signora dal volto incorniciato da una corona di capelli candidi, che sprigiona da tutti i pori energia e voglia di vivere. Si mostra sorpresa, quasi frastornata, per il fatto che la sua vicenda abbia d’un tratto interessato persino la stampa nazionale. “In fondo – sbotta con la sua cadenza friulana schietta e immediata -, cosa ho mai fatto di tanto speciale?”. Quando però le propongo di incontrarci, acconsente volentieri. È infatti un’attenta lettrice del nostro giornale. “Anzi – mi dice con soddisfazione – sono anche abbonatrice da tanti anni”. Ci diamo appuntamento davanti al San Giovanni, l’enorme complesso ospedaliero a ridosso del-l’omonima basilica lateranense, ed è lei a far strada nell’intrico dei padiglioni e dei reparti. Qui Giovanna Candusso è di casa. E nel vederla muoversi tra le corsie, così agile e svelta, non le si darebbe certo l’età che ha. Un immacolato camice bianco avvolge un corpo minuto, ma ancora vigoroso. È difficile davvero contare quante volte abbia percorso questi lunghi corridoi solo per dare un “buon giorno”, portare un piccolo dono, porgere una colazione, offrire almeno un bicchiere di acqua fresca, un sorriso, un gesto di affetto. Tutto è apprezzato ed importante, per quanti dal letto d’ospedale vedono trascorrere le ore e i giorni senza una voce amica. Così da venticinque anni, tre volte a settimana. Ben presto hanno imparato a distinguere l’incon-fon-dibile ticchettio del suo passo leggero, che ne annuncia la presenza prima ancora che la si veda apparire sulla porta. E, non si sa chi sia stato il primo, hanno iniziato a chiamarla “nonna Titti”, lei che non è mai mancata all’appuntamento con i malati. Ci conosciamo da tempo con Giovanna Candusso, e sempre ne ho apprezzato l’atteggiamento positivo e sereno nei confronti della vita, che non le ha risparmiato certo le sue severe lezioni, ma che ne ha forgiato il carattere adamantino. Rimasta con i suoi quattro fratelli priva dei genitori, essendo la primogenita li ha accompagnati nella vita uno dopo l’altro. “Con grande sacrificio, – dice – li ho aiutati tutti a studiare. Io stessa, dopo aver preso il diploma di infermiera e la specializzazione di assistente socia- le, ho lavorato per trent’anni in un consultorio che prestava servizio alle madri in difficoltà. Era appena finita la guerra, quando dal nativo Friuli sono stata sbalzata ad Anagni, e di quel duro periodo rammento che non avevamo mezzi per assistere i tanti bambini denutriti e le loro mamme. Ricordo che lavoravamo senza intervalli dalla mattina presto sino all’imbrunire; quando mancava la luce, e ciò accadeva spesso, il dottore eseguiva le visite sotto i fari della sua macchina, mentre io tenevo il bambino di turno in grembo”. È proprio in quegli anni “eroici” che Giovanna fa quello che lei stessa definisce l’incontro più importante e decisivo della sua vita. “Era il 1949, ed un religioso francescano di Trento mi parlò di Chiara Lubich e delle sue prime compagne. Da allora non le ho più perse di vista”. Giunta all’età della pensione, si trasferisce a Roma per stare accanto ai suoi fratelli e alle loro famiglie. Ma certo l’ex assistente sociale non è tipo da mettersi in pantofole. Con Giulia Polverisi, scomparsa di recente, ed altre amiche che vogliono impegnarsi nel sociale dà vita all’Arvas (Associazione regionale volontari assistenza sanitaria). Una forma di volontariato ancora tutta da inventare. Era il 1978. Da allora, per recarsi in ospedale Giovanna esce di casa alle 6.30, e un’ora dopo arriva al San Giovanni, in tempo per dare la prima colazione a chi non ce la fa a mangiare da solo. Qui tutti la conoscono. Lo si nota dal saluto pieno di cordialità che le rivolge il personale sanitario che man mano incrociamo. Dal primario al portantino, tutti hanno una parola per lei. “Da quando ho iniziato il mio servizio – dice quasi per spiegare il motivo di questi rapporti di stima e di collaborazione nati e cresciuti tra le corsie del San Giovanni – ho lavorato nella sala Mazzoni (il padiglione dove erano ricoverati gli anziani abbandonati); quindi ad ematologia, poi a medicina generale, nella quarta clinica medica e, da alcuni anni, nel reparto breve osservazione”. Sono tanti i fatti, gli episodi, che affiorano ora alla sua memoria sempre molto viva. Si intuisce che con ciascuna delle persone incontrate in ospedale anche solo per un giorno è riuscita a stabilire un rapporto speciale. “Ricordo i primi anni, iniziava a Roma la presenza degli extracomunitari e – prosegue Giovanna – ogni giorno ne arrivava qualcuno da noi. Senza niente, sporchi e affamati, dovevamo lavarli e rivestirli. Un giorno arrivò un barbone italiano, che, malgrado fosse veramente malconcio, rivelava una grande educazione. Non voleva per vergogna farsi lavare, ma alla fine ci ringraziò con le lacrime agli occhi, dicendoci che nemmeno una persona di famiglia avrebbe fatto altrettanto per lui. Venimmo a sapere dopo che era laureato in legge”. Studiosa di teologia, “nonna Titti” non si lascia sfuggire l’occasione di parlare del “suo Gesù” ai malati. “Soprattutto con i giovani – dice – mi sento a mio agio. Mi chiamano “nonna”, e per ciò chiedo loro il permesso di parlare con il cuore in mano, da vera nonna. Loro mi ascoltano volentieri, e spesso mi salutano con un bacio”. Non sono mancate, è ovvio, le difficoltà. “Ma queste – dice – sono fatte per essere superate. Ora ricordo soltanto il bene, i rapporti belli che si sono costruiti nel tempo. E questa salute che mi lascia stupefatta. Sono cosciente che è un dono di Dio, di cui gli sono grata ogni giorno”. Alla bella età di 88 anni, Giovanna non ha, a quanto pare, nessuna intenzione di tirare i remi in barca. “Il segreto della mia longevità? – risponde con una franca risata -. Mah, penso che sia dovuto al fatto che non ho tempo di rimuginare il passato, né di pensare al futuro. Cerco di vivere attimo per attimo ciò che Dio mi chiede nel presente”. Senza far sconti all’età, a quanto vedo.