Contro il gradualismo

I grandi cambiamenti non sempre avvengono a piccoli passi, e la necessità di procedere per gradi non deve diventare di ostacolo all'intraprendere iniziative urgenti. Dalla rivista Città Nuova n° 10/2023
Martin Luther King

Abbiamo da poco ricordato i sessant’anni dal grande discorso profetico di Martin Luther King, I have a dream, pronunciato a Washington il 28 agosto del 1963. Rimeditando quel discorso mi ha colpito un passaggio: «Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che si trangugi il tranquillante del gradualismo». Ero molto critico del gradualismo, dell’idea, molto radicata, che i grandi cambiamenti non possono avvenire subito perché la grande complessità della realtà da cambiare richiede un processo graduale e una politica dei piccoli passi. Il gradualismo trova molto consenso, perché sottolinea un valore vero, quello dell’inclusione, della necessità di coinvolgere i vari protagonisti che hanno un ruolo nella creazione dei problemi e quindi anche nella loro soluzione. Da qui i grandi processi di consultazione della base, dei questionari, delle molte commissioni per garantire la sinodalità dell’intero processo di cambiamento.

Non voglio affermare che il metodo gradualista non sia mai da adottare o sia sempre sbagliato. La domanda è un’altra: perché Martin Luther King era molto contrario al gradualismo? Perché, semplicemente, lui vedeva in chi invocava la politica dei piccoli passi un alibi per continuare a rimandare riforme e cambiamenti urgenti ed evidenti (l’apartheid, ad esempio), e perché svolgeva per i potenti la funzione di ‘tranquillante’ della coscienza. Appellarsi ad un valore, in sé anche valido, diventava solo una giustificazione dello status quo – quasi sempre chi osteggia un processo necessario lo fa in nome di una buona ragione.

Non tutti i cambiamenti avvengono per piccoli passi. In fisica l’acqua si trasforma da liquida in solida in un attimo, le rivoluzioni non avvengono gradualmente, perché certi processi esplodono quando si supera una soglia critica. Oggi, ad esempio, chi continua ad invocare la politica gradualista nell’ambito dei cambiamenti climatici e della transizione ecologica (la stessa parola transizione incorpora l’idea dei piccoli passi), quasi sempre usa questa bella parola per rallentare un cambiamento che era urgentissimo già venti anni fa. L’inclusione di tutti i governi e i vari portatori di interesse economico (stakeholders) è parte essenziale del problema ambientale, è la prima causa del perché stiamo assistendo inerti ad un declino veloce ed inesorabile del clima. Quando la nave affonda, o quando la casa brucia, nessuno pensa di convocare un’assemblea per decidere con complesse procedure il da farsi: ci sarebbe bisogno di un capitano che si prendesse le responsabilità delle scelte e scegliesse. Il mondo non ha un capitano (ed è bene così) e infatti stiamo affondando; ma questo ‘capitano’ può e deve emergere dal basso, dalla popolazione mondiale, da processi civili che possono portare a decisioni veloci ed efficaci sostitutive della mancanza dei ‘capitani’ – e speriamo solo che siano pacifici e non-violenti.

Ma ciò che stupisce è che il gradualismo prende piede anche nelle comunità ideali e nei movimenti dove invece i ‘capitani’ ci sono, dove esiste un governo che le decisione urgenti potrebbe e dovrebbe prenderle. E invece, troppo spesso, anche qui di fronte a crisi generali e serie che richiederebbero un cambiamento veloce, si preferisce il metodo gradualista, la creazione di commissioni che poi un giorno riporteranno le esigenze emerse con la speranza (un po’ ingenua) che alla fine si riesca a fare la sintesi tra tutta la quantità di informazione che si sarà raccolta. E così passano gli anni, i governi, le patologie si aggravano, e mentre i medici discutono sul da farsi il paziente inizia a morire.

Un errore tipico di questi metodi gradualisti, poi, riguarda l’economia. Gli aspetti economici sono i primi che emergono durante una crisi, ma sono gli ultimi che vanno affrontati, perché l’economia è un indicatore di fenomeni molto più vasti e profondi della sola economia. Gli indicatori economici sono la spia rossa che, nell’auto, segnala un guasto al motore: ti dice di sistemare il motore e poi, una volta riparato, la spia si spegnerà da sola. E invece si inizia a sistemare per prima l’economia senza capire le malattie strutturali che hanno generato la crisi economica, e più si ripara l’economia più la malattia cresce nel profondo.

La qualità di un governo nei tempi di crisi dipende molto dalla capacità dei responsabili di intuire, per istinto, dove siano i problemi del ‘motore’, e da lì partire. Riceveranno critiche, accuse di dirigismo, ma forse salveranno il corpo che soffre.

Le più recenti puntate della rubrica di Luigino Bruni sono pubblicate mensilmente sulla rivista Città Nuova

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