Il contagio di Edipo al tempo del Covid
Nella letteratura classica quella dell’Edipo re di Sofocle, è una delle pandemie più conosciute. Trattasi della vicenda del giusto e amato sovrano di Tebe, l’uomo innocente colpito dagli Dei, vittima e carnefice, che si mette alla ricerca dell’assassino del vecchio re Laio per esaudire l’oracolo e così salvare la città dalla pestilenza che la affligge.
L’argomento è stato variamente indagato dagli scrittori dei tempi antichi. Primo fra tutti Omero nell’Iliade il quale narra della peste dovuta all’ira del dio Apollo verso Agamennone che rifiuta di riconsegnare la sua schiava Criseide al padre Crise, sacerdote del dio, innescando così l’ira di Achille e lo scontro con Agamennone, che porteranno alla guerra di Troia.
L’esplodere improvviso di un’epidemia senza apparenti spiegazioni, e l’effetto che produce sui corpi e sulle psicologie degli individui e delle masse, lo svelamento della fragilità umana e l’illusione della potenza dell’uomo sulla terra, fa sì che chiunque può ritrovarsi, in poco tempo, da un luminoso momento della vita al più buio dei destini. Com’è stato per Edipo.
L’esordio della tragedia sofoclea è proprio con l’accorata lamentazione dei cittadini tebani che chiedono aiuto al re per la pestilenza che li sta decimando. Questi ordina al cognato Creonte di consultare l’oracolo di Delfi il quale chiarisce che il solo modo di salvare la città dall’epidemia è scacciare da Tebe l’assassino del re Laio. «Sono io il contagio», dirà di se stesso quando scoprirà tardi di essere lui l’inconsapevole colpevole. Identica autoaccusa che troviamo nell’Edipo di Seneca che gli fa dire: «Sono io che ho contagiato il mondo».
A innestare spettacolarmente la sua storia con l’oggi per i molti rimandi che suggerisce, è il progetto “Edipo: io contagio – scena e parola in mostra nella Tebe dei Re“, una mostra nata da un’idea del regista e direttore del Teatro Nazionale di Genova, Davide Livermore. «Il drammaturgo dell’antica Grecia, che si era ispirato a una pestilenza che pochi anni prima aveva terrorizzato i suoi concittadini – spiega Livermore – ci offre uno specchio clamoroso della nostra società: i versi dell’Edipo Re ci restituiscono un momento tragico, riflettendo in maniera implacabile il periodo storico che stiamo vivendo».
Si tratta di una mostra performativa che ha coinvolto attori e danzatori – in seguito a una call pubblica all’indomani del DPCM del 25 ottobre 2020, che lasciava i Musei ancora aperti al pubblico, poi chiusi e ora nuovamente riaperti – con l’intento di proteggere e tutelare l’occupazione di artisti e maestranze, da molti mesi in gravi difficoltà lavorative. Perché «L’arte deve esistere e resistere» sottolinea Livermore.
Collocata nel Sottoporticato del Palazzo Ducale di Genova, la mostra segue un percorso distribuito in sei diverse stanze. Nell’attraversamento dall’una all’altra segnate da una lunga striscia rossa che scorre sulle pareti, tra tinozze divelte e i resti di una jeep esplosa, gli spettatori si troveranno a contatto con diversi elementi scenografici (provenienti, dal Teatro alla Scala di Milano, da quattro spettacoli: Elektra regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti; Tamerlano, regia di Livermore, scene di Giò Forma; Giovanna d’Arco, regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier, scene di Christian Fenouillat; Giulio Cesare in Egitto, regia di Robert Carsen, scene di Gideon Davy) che ci immergono in un mondo in rovina, arcaico e contemporaneo allo stesso tempo.
L’allestimento rimanda a un campo di battaglia, dove s’incontra un cavallo imponente e un altro a terra in una pozza di sangue; dei monitor che trasmettono delle news giornalistiche da Tebe; delle impronte rosse di mani sui pannelli; una carcassa d’animale appesa; scritte sui muri coi nomi degli eroi tragici, e frasi come: “la Sfinge ci inchiodò gli occhi all’oggi”; il manichino di un giovane con indosso una felpa seduto davanti ad un televisore; una candela che illumina la scritta “per coloro che non ci sono più”; e altri oggetti sparsi.
In mezzo a questo scenario avvolto sonoramente dalle musiche di Andrea Chenna, sono collocati due danzatori rinchiusi dentro delle teche trasparenti che si muovono agitandosi per la mancanza di respiro, mentre risuonano le voci di attori in carne e ossa che vediamo, anch’essi, dentro altre teche intenti a recitare alcuni frammenti dell’Edipo re. Sono i versi del primo atto dell’opera in cui ascoltiamo il lamento di donne che piangono le morti di mariti e figli, le voci di una comunità che nel panico collettivo s’interpella sulle ragioni e responsabilità dell’uomo nella sciagura, e quelle di capi di governo che chiedono salvezza per il proprio popolo, in un gioco malvagio del destino in cui si è prima vittime, poi colpevoli, cercando come sfuggire al contagio.
«Attori e coro – spiega infine Livermore – parlano in Edipo Re un “perpetuo oracolese” (Edoardo Sanguineti), le parole alludono ad altro e sottintendono altro, non servono a comunicare davvero e non risolvono nulla. Così, in una delle epoche più tormentate della tormentata storia di Atene antica, l’interrogativo più profondo del coro è quello di chi teme il trionfo dell’insolenza, la fine della democrazia, il dilagare di ogni ingiustizia. Se tutto questo può ricevere onori, si chiede il coro, perché continuare a fare teatro?». Frase, quest’ultima, scritta in grande su una parete, che sovrasta tutti.
“Edipo: io contagio – scena e parola in mostra nella Tebe dei Re”, ideazione Davide Livermore, a cura di Davide Livermore, Margherita Rubino, Andrea Porcheddu; elementi scenografici del Teatro alla Scala; testi da Edipo Re di Sofocle, riduzione di Margherita Rubino. Produzione Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con Fondazione per la Cultura Palazzo Ducale Genova. A Genova, Palazzo Ducale, fino al 7 marzo 2021.