Consumismo, errore non esagerazione

Siamo in tempi in cui si pensa poco e si parla molto, anche per una fobica paura di scomparire, che spinge ad affermare, invece che penso, dunque esisto, parlo, quindi ci sono. Illusione, parlare non garantisce l’esserci; si può parlare del più e del meno, si scivola nel meno, si deve constatare infine che il silenzio era meglio. E per fuggire a questa incalzante verità si alza il volume… Esattamente analogo è il consumismo, che per un disperato equivoco viene incaricato di riempire il vuoto (come le troppe parole sono emesse per occupare il silenzio), ma neppure lo sfiora. I suoi gesti corrivi – non può che produrne – vengono, nel migliore dei casi, scambiati per esagerazioni, deragliamenti da una via che potrebbe, se fosse più modesta, correre diritta e fiorita. Ma non è così, il consumismo non è un’esagerazione, è un errore, non si cura riempiendosi di meno cose, ma solo entrando con le cose (con tutto, anche con le persone) in un rapporto completamente diverso, perché non si è consumisti in quanto si vuole più o migliore piacere o lusso; non è questione di quantità o qualità (la famosa, indefinibile qualità della vita); si è consumisti, anche con una sola caramella, anche con un solo pensiero di caramella, se e in quanto si cerca la salvezza nelle cose. Qui il discorso diventa impopolare, ma vero.Tanto vero da far risultare subito espressioni di presunta modernità, come il discriminare tra conservazione e innovazione, parole da bambini, non appena si comprende che il consumismo, che rimbambi( ni)sce, scambia le cose per persone, e le persone per cose. Infatti chiede, pretende, che ad esempio un gelato sostituisca un bacio (lei si nega mordendo un cornetto, e simili, in tutta l’ignobile pubblicità al riguardo, luciferinamente calcolata), che un’automobile sostituisca un lui o una lei, eccetera; e viceversa, chiede, pretende, che una persona diventi un sorbetto, un lecca-lecca, cosa da manipolare in vita e in morte: basta pensare all’incremento dell’usa-e-getta nei rapporti umani detti normali, e all’incremento del consumo criminale negli omicidi sempre più banali. Qui siamo non nell’eccesso ma nell’errore, come chi scambia un lampione per una figura umana non eccede, ma si inganna prendendo una cantonata, quanto chi scambia una figura umana per la colonnina di un distributore di benzina. Però per non fare questo errore non basta, dire o dirsi: non farlo; occorre sapere cosa è una cosa, chi è una persona. E qui nessuna descrizione scientifica aiuta, siamo ben oltre le formule fisico-chimico-biologiche. Solo quando hai veramente disperato fino in fondo che nel vino o in qualcos’altro ci sia la verità, e che in una persona possa esserci il tuo possesso e il tuo gioco, capisci che le cose e le persone, in modi diversissimi le une dalle altre, ti trascendono, sono rispettivamente strumenti e compagni di viaggio, ma non tesori e approdi definitivi, come non lo sei tu stesso. Sono sacre: le cose a loro modo, le persone a loro (superiore, sublime) modo. Non puoi veramente consumarle; solo gualcirle o distruggerle. Oppure amarle: ma di un amore di dono e di servizio, infinito, molto diverso da quello finora testardamente ripetuto, a vuoto, per possedere.

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