Considerazioni politiche sulla vicenda Moro
In questi ultimi tempi, dopo decenni di silenzio, sono apparsi numerosi libri e pubblicazioni sul delitto Moro. Questi studi si concentrano sull’azione politica di Aldo Moro nel periodo dal 1969 al 19781. I medesimi assumono una particolare importanza, non solo per conoscere di più la figura e l’opera dello statista, ma per comprendere meglio le relazioni esistenti tra l’azione politica di Aldo Moro e le motivazioni che portarono al suo rapimento e alla sua uccisione.
Qualche anno fa l’interesse ad approfondire tali motivazioni fu suscitato in me da un’intervista che mi fu fatta sul processo Moro, di cui mi sono direttamente occupato come giudice relatore davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Roma negli anni 1984-19852. Fu quella del processo un’esperienza molto forte sia per la grande rilevanza del delitto Moro sia per essere stato personalmente esposto al rischio di attentati che la partecipazione al processo comportava. Questo, infatti, riguardava tutti i dirigenti delle Brigate Rosse, imputati non solo dell’omicidio di Aldo Moro, ma di numerosi altri omicidi commessi a Roma negli anni dell’offensiva terroristica.
Al momento della predetta intervista erano trascorsi molti anni da quando feci il processo e in questo lungo periodo volutamente non ho mai rievocato quella straordinaria esperienza. I motivi di questo mio silenzio sono vari, ma penso che, oltre a quelli più strettamente personali, essi in parte coincidano con quelli che hanno determinato per tanti anni il silenzio nell’opinione pubblica e tra gli studiosi sul delitto Moro e sulle motivazioni politiche, nonché sulle conseguenze dello stesso. Invero, dopo l’omicidio dello statista democristiano, la vicenda italiana è stata fortemente legata all’esperienza di governo, prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi, che per la sua peculiarità ha impedito il corretto svolgimento della vita democratica in Italia ed ha, in certo senso, paralizzato e quasi anestetizzato
qualunque desiderio di fare chiarezza su quel delitto e sulle motivazioni e le conseguenze politiche dello stesso.
All’indomani dell’uccisione di Moro si è fatta calare una cortina di oblio sulla drammatica vicenda, per il preciso motivo – come cercherò di esporre in questo articolo – che quella conclusione doveva servire a porre la parola fine anche ad un determinato corso politico, portato avanti da Aldo Moro, e a inaugurare un diverso corso della politica italiana.
Ora stanno emergendo molteplici circostanze, testimonianze e documenti in base ai quali è possibile fare più luce sui motivi politici della eliminazione dello statista democristiano. Già nel processo, in cui sono stato giudice, erano emersi fatti che facevano ritenere che le Brigate Rosse non avessero agito da sole, ma avessero goduto di una certa protezione da parte dei Servizi segreti, i quali, pur essendo a conoscenza dei preparativi dei brigatisti per il rapimento di Moro, avevano lasciato che essi operassero.
Alcuni di questi fatti sono indicati nella sentenza del giudizio d’appello. Ad essi voglio aggiungere degli episodi di cui sono testimone diretto.
a) Il Corriere della Sera, pochi giorni prima della strage di via Fani e del sequestro, dedicò l’intera terza pagina a Moro con un articolo a firma di Gianfranco Piazzesi (già autore del libro: Berlinguer e il Professore). L’articolo è intitolato Il conte Attilio, e vi si fa una singolare rappresentazione del personaggio Aldo Moro, con previsioni di ciò che potrebbe succedere in Italia se egli diventasse Presidente della Repubblica (di lì a pochi mesi, infatti, doveva eleggersi il successore di Giovanni Leone). Lessi l’articolo nei giorni precedenti alla strage e al sequestro, e quando questi avvennero notai la stretta sequenza temporale tra le due vicende.
b) In una sera di inverno del 1981 o 1982 (?), la Rai ha mandato in onda sul primo canale, subito dopo il TG delle 20, una fiction televisiva dal titolo Morte di un presidente, che io ho visto. Il filmato (ovviamente in esso i personaggi non vengono indicati con il loro nome reale) è un duro atto di accusa nei confronti dei capi dei Servizi segreti, di personalità della Democrazia cristiana e del Governo. All’inizio del drammatico documento televisivo si vede Aldo Moro che viene ricevuto in udienza privata, di notte, dal papa Paolo VI. Moro espone al papa il suo progetto di governo di solidarietà nazionale, a cui dovrebbe partecipare il Partito comunista di Berlinguer. Il papa ascolta in silenzio, e poi chiede a Moro: «Lei sa quale rischi corre?». Moro risponde di sì, e il colloquio si chiude con la benedizione di Paolo VI allo statista democristiano. Di questo filmato si sono perse le tracce, e per quanti tentativi si siano fatti, anche presso gli archivi della Rai, non si sa se e dove si trovi.
c) Subito dopo la morte di Giulio Andreotti, gli organi di informazione pubblicarono la notizia che i diari dell’uomo politico erano custoditi nel caveau di una banca romana. Dei diari di Andreotti si sapeva da moltissimi anni; si sapeva che egli annotava scrupolosamente ogni sera gli avvenimenti più significativi del giorno. Si diceva che ciò gli serviva anche per fronteggiare qualche attacco che poteva venirgli dai suoi avversari politici. Io ho sempre pensato che Andreotti, presidente del Consiglio dei Ministri prima, durante e dopo il sequestro, non poteva non avere segnato nei suoi diari ciò che era successo in quei giorni: fatti, circostanze, nomi e implicazioni di persone che dirigevano e gestivano l’azione del governo. Perciò, ho nutrito la speranza che attraverso questi diari si potesse sapere di più dei motivi del sequestro e dell’uccisione di Moro. Da qui la mia delusione per il fatto che sulla sorte dei diari medesimi è calato il più profondo silenzio.
Ai fini della comprensione del coinvolgimento di entità, interne e internazionali, nell’omicidio di Aldo Moro, espongo i numerosi elementi, ormai accertati, oltre a quelli sopra indicati, che hanno portato ultimamente l’Autorità giudiziaria a riaprire le indagini sul delitto Moro.
Le rivelazioni nel marzo 2014 di un ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo le quali a bordo della moto Honda – la cui presenza in via Fani mentre le Brigate Rosse rapivano lo statista e massacravano la scorta era stata già accertata – c’erano due uomini dei servizi segreti. Sulla base di questa notizia la Procura della Repubblica di Roma ha immediatamente avviato le indagini; ma, il procuratore generale presso la Corte d’Appello, Luigi Ciampoli, ha avocato a sé le indagini medesime, e nel successivo mese di settembre, con una solerzia insolita, le ha chiuse, chiedendone l’archiviazione. Lo stesso procuratore generale, ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta nel mese di novembre, ha dichiarato che non si era potuto accertare l’identità dei due uomini a bordo della moto Honda, che avevano protetto l’azione dei brigatisti; tuttavia, egli ha aggiunto che «l’uccisione di Aldo
Moro non fu un omicidio legato solo alle Brigate Rosse. Sul palcoscenico di via Fani c’erano i nostri servizi segreti e quelli di altri Paesi stranieri interessati a destabilizzare l’Italia».
Inoltre, il medesimo procuratore, ha chiesto alla Procura della Repubblica di Roma di aprire procedimento penale contro Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato americano, psichiatra, esperto di antiterrorismo, inviato a Roma durante il sequestro Moro per conto del blocco atlantico e inserito da Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno, nel comitato di esperti che doveva gestire il sequestro medesimo. Pieczenik nel 2008 ha pubblicato un libro-intervista in cui dichiara di aver portato avanti un piano di “manipolazione strategica” nei confronti delle Brigate Rosse, affinché, fingendo la trattativa per la liberazione
di Moro e negando alla fine qualunque concessione, i brigatisti fossero costretti a uccidere l’ostaggio, obiettivo irrinunciabile per la “stabilizzazione politica” dell’Italia, unico Paese dell’Occidente dove un partito comunista stava per avere accesso al governo.
Pieczenik è stato citato anche dall’ex giudice Ferdinando Imposimato nel suo libro Doveva morire. Inoltre, la strategia del suddetto esperto statunitense mirava, spingendo le Brigate Rosse all’uccisione di Moro, anche alla sconfitta di questa organizzazione terroristica, per non aver ottenuto dallo Stato il proprio riconoscimento come forza combattente e per essere ormai divenuta invisa alla gran parte della popolazione per la propria ferocia insensata.
Infatti, negli anni immediatamente seguenti all’eliminazione di Moro, le Brigate Rosse sono state debellate con l’arresto di quasi tutti i componenti. Segno anche questo evidente che con l’uccisione di Moro era venuta meno la ragione della protezione di cui avevano goduto prima, proprio in vista del suddetto risultato. Circa il coinvolgimento diretto dei Servizi segreti, è stata pure accertata attraverso le indagini giudiziarie la presenza in via Fani, al momento dell’eccidio della scorta di Moro, di un ufficiale del Sismi (il Servizio segreto militare dell’epoca), e cioè del colonnello Camillo Guglielmi, addestratore della struttura segreta Gladio.
Al momento, contro la richiesta di archiviazione nei confronti degli occupanti della moto Honda, avanzata dal procuratore Ciampoli, ha fatto opposizione il nuovo procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Antonio Marini, succeduto a Ciampoli – andato in pensione –, ed ha chiesto la prosecuzione delle indagini per accertare tutte le responsabilità per l’omicidio di Aldo Moro. Numerosi libri e pubblicazioni sul delitto Moro, apparsi negli ultimi anni, si concentrano sulla politica di Moro nel periodo dal 1969 al 197810. La conoscenza dell’azione politica di Moro nel predetto periodo si rivela, infatti, importantissima e indispensabile per conoscere le vere motivazioni del suo sequestro e della sua uccisione.
Gli anzidetti studi mettono in luce il costante atteggiamento di “attenzione” che Aldo Moro aveva verso i cambiamenti in corso nella società italiana, sottoposta, contemporaneamente, al duplice attacco proveniente dal terrorismo di sinistra e dagli ambienti reazionari di destra. Per fronteggiare questi pericoli, e per assicurare un rafforzamento del sistema democratico, Moro guardava al cambiamento in atto nel Partito comunista sotto la guida di Enrico Berlinguer. Questi aveva operato lo storico “strappo” dall’Unione Sovietica e stava portando il Partito comunista verso responsabilità di governo.
Moro venne così concependo il disegno di coinvolgere il Partito comunista nel processo di governo del Paese. Per realizzare questo disegno politico Moro era altresì impegnato a fare accettare dalla Democrazia cristiana il suo progetto.
Egli ne motivò l’urgenza per due ragioni:
1) l’avanzata elettorale del Partito comunista (nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il 34% del consenso elettorale portandosi a pochi punti dalla Democrazia cristiana);
2) la crisi di governo apertasi nel dicembre 1977, allorché il partito di Berlinguer aveva ritirato l’appoggio esterno al governo presieduto dall’on. Andreotti, chiedendo l’ingresso nel governo.
Moro spiegò agli uomini del suo partito che, di fronte alla predetta situazione, esistevano due possibilità: andare di nuovo alle elezioni, ma questa ipotesi avrebbe comportato dei grossi rischi politici, essendo incerto l’esito, e perché avrebbe aggravato il clima di tensione tra i due maggiori partiti e nel Paese; oppure continuare nel tentativo di collaborazione col Partito comunista, portandolo nell’area di governo, da attuarsi gradualmente.
A monte di questa seconda soluzione, Moro vedeva la necessità di un profondo rinnovamento politico, essendo già percepibili i segni della corruzione del sistema. L’ingresso del Partito comunista nell’area di governo avrebbe dovuto avere la finalità di rafforzare la democrazia, avendo anche in prospettiva un’alternanza al governo. È noto che larghi settori della Democrazia cristiana erano contrari.
Il quadro politico si presentava nei suddetti termini, allorché nel gennaio 1978 intervenne un fatto di rilevanza internazionale, destinato ad operare sul quadro medesimo. Si tratta del comunicato del Dipartimento di Stato americano, emesso il 12 gennaio 1978, con il quale si chiariva la posizione degli Stati Uniti sulla vicenda politica italiana. Il comunicato, pur ribadendo che «i nostri alleati dell’Europa occidentale sono Paesi sovrani, e, com’è giusto e appropriato, la decisione di come governarsi spetta esclusivamente ai loro cittadini», conteneva alcune affermazioni impegnative:
“Esponenti del Governo hanno ripetutamente espresso tali vedute sulla questione della partecipazione dei comunisti ai governi dell’Europa occidentale. La nostra posizione è chiara: noi non siamo favorevoli a tale partecipazione e vorremmo veder diminuire l’influenza comunista nei Paesi dell’Europa occidentale. Come abbiamo detto in passato, riteniamo che il modo migliore per conseguire questi obiettivi sia attraverso gli sforzi dei partiti democratici per soddisfare le aspirazioni popolari di un governo efficiente, giusto e aperto alle istanze sociali.
È accertato da fonti sicure, riportate nelle pubblicazioni citate, che il Governo americano, già dall’epoca del presidente Nixon, teneva sotto continua osservazione l’azione politica di Moro, temendo che questi potesse far entrare il Partito comunista nella maggioranza di governo. È noto il minaccioso avvertimento ricevuto in ambienti internazionali in questi termini. Gli Stati Uniti ritenevano incompatibile con il sistema di difesa della Nato l’ingresso del Partito comunista nel governo.
Anche l’Unione Sovietica era contraria al progetto di Moro, perché non vedeva di buon occhio il processo di democratizzazione del Partito comunista italiano, in quanto poteva contagiare i partiti comunisti delle nazioni dell’Europa orientale (c’era già stata la “primavera di Praga”, repressa dall’Unione Sovietica).
Poi, sia Stati Uniti che Unione Sovietica paventavano che l’alleanza di governo tra Democrazia cristiana e Partito comunista potesse essere la premessa per mettere in discussione gli equilibri politici in Europa, scaturiti dagli accordi di Yalta.
In Italia negli anni fino al 1975 le forze conservatrici di varia origine e di diversa natura, comprendenti epigoni del fascismo, apparati dello Stato e gruppi economici, si erano opposte al regime democratico nato dall’Assemblea costituente, sia perché lo ritenevano pericolosamente debole nei confronti del pericolo comunista, sia perché erano fondamentalmente scettiche sulla possibilità di una democrazia in Italia.
Le anzidette forze avevano perciò operato per un mutamento del regime politico mediante la strategia della tensione (strage di piazza Fontana e stragi successive) e vari tentativi di golpe. Le predette forze, però, si erano rese conto che questa via non poteva avere successo; e ciò per l’esistenza di un governo sorretto da una forte Democrazia cristiana (nelle elezioni del 1976 aveva ottenuto oltre il 38% del suffragio popolare) e, insieme, per l’esistenza di un forte Partito comunista ben radicato sul territorio (nelle stesse elezioni aveva superato il 34% dei voti). Questi due fattori costituivano oggettivamente un ostacolo non sormontabile per qualunque tentativo golpista.
Il comunicato del Dipartimento di Stato segna un momento di svolta, da considerarsi decisivo sia sul piano politico internazionale che sul piano politico interno. Esso offrì, nel momento in cui Moro si accingeva a varare il governo di solidarietà nazionale col Partito comunista, una motivazione, proveniente da un altissimo livello, alle forze interne e internazionali che si opponevano alla politica di Moro. È molto verosimile, quindi, che da quel momento si sia realizzata una convergenza, non necessariamente dichiarata, di tutte questa forze sull’azione contro Moro.
In Italia, dal 1975 ha inizio, e progressivamente si aggrava, la sanguinosa stagione che va sotto il nome di “anni di piombo”, soprattutto ad opera delle Brigate Rosse. È impressionante l’escalation terroristica di queste, culminata nella strage di via Fani e nel sequestro di Aldo Moro; e resta ancora non sufficientemente esplorato perché le Brigate Rosse potettero operare, quasi impunemente e senza un efficace contrasto, in quegli anni.
Le indagini hanno messo in evidenza gli inquietanti scenari, che tirano in campo settori dei Servizi segreti, che avrebbero agevolato i piani e le azioni delle Brigate Rosse. Queste si facevano anche portatrici della profonda avversione alla Democrazia cristiana nutrita negli ambienti della sinistra. Tuttavia, a questo punto è necessaria una precisazione per avere una comprensione il più possibile esatta della “vicenda Moro”. L’obiettivo delle Brigate Rosse era colpire la Democrazia cristiana, su cui si reggeva il governo, per destabilizzare politicamente l’Italia e innescare nel Paese un processo rivoluzionario.
Per questo motivo le BR indirizzarono l’“attacco al cuore dello Stato” nella persona di Aldo Moro, perché presidente della DC e protagonista della vita politica italiana. Inoltre, nella strategia delle Brigate Rosse l’azione contro Moro doveva servire anche ad interrompere il percorso democratico che Berlinguer stava facendo compiere al Partito comunista. Sotto questo aspetto, non c’è dubbio che le BR operavano a favore del Patto di Varsavia. Del resto è noto che dirigenti brigatisti ebbero rapporti con agenti del Kgb. Secondo una testimonianza nel processo Moro, essi avrebbero avuto rapporti con i servizi segreti dell’Armata Rossa.
Questa era la posizione delle Brigate Rosse al momento del sequestro, durante il quale le stesse avevano cercato, attraverso la trattativa con lo Stato per la liberazione dell’ostaggio, la legittimazione come forza politica rivoluzionaria.
Successivamente, in un documento prodotto nel marzo 1979 dal nucleo storico delle BR in carcere, è stato scritto che l’azione contro Moro costituiva l’attacco al “cuore dello Stato” rappresentato in quel momento dall’accordo tra Democrazia cristiana e Partito comunista per un governo di solidarietà democratica. Questo spostamento (o allineamento) di obiettivo conferma ciò che era già emerso ed emerge sempre più come il vero scopo dell’azione contro Moro, cioè impedire il suo progetto di solidarietà democratica coinvolgente il Partito comunista, contro cui erano schierate le forze interne e internazionali che si opponevano a tale progetto.
Appare molto verosimile, quindi, che il concorso delle predette forze si sia precisato e abbia preso corpo dopo il comunicato del Dipartimento di Stato americano del gennaio 1978. La data scelta per il sequestro, infatti, non fu casuale. Nei piani originari delle Brigate Rosse il sequestro sarebbe dovuto avvenire una settimana dopo, ma poi fu anticipato per farlo coincidere proprio con il giorno (16 marzo 1978) in cui veniva presentato in Parlamento il governo di solidarietà nazionale.
È noto che contrari alla predetta ipotesi erano schierati vasti settori della classe dirigente del Paese. È risultato che molte persone di quella classe (capi delle forze armate e dei servizi segreti, alti dirigenti dello Stato, magistrati, giornalisti, ecc.) erano affiliate alla Loggia P2 di Licio Gelli, la quale si era costituita tra il 1975 e il 1976 con l’intento di contrastare l’ingresso del Partito comunista nell’area di governo e di far luogo a un nuovo governo sul “Piano di rinascita democratica”, elaborato da Gelli.
Nel gennaio 1978 furono nominati dal governo presieduto da Andreotti i capi dei servizi segreti e delle forze armate, risultati poi iscritti alla Loggia P2. Le anzidette forze, socialmente e politicamente rilevanti, si aggiungevano ai gruppi reazionari che negli anni precedenti avevano operato la strategia della tensione e i vari tentativi di golpe. Si realizzò, quindi, contro Moro una vasta convergenza.
Lo statista se ne rese conto man mano, e ne ebbe la certezza durante la sua terribile prigionia. Questa consapevolezza può spiegare il contenuto e il tenore delle sue lettere, al di là di altre ipotesi; e decretò anche la fine dello statista democristiano.
L’eliminazione, fisica e politica, di Aldo Moro fece maturare e attuare un diverso corso della politica italiana. Ciò si verificò puntualmente subito dopo la sua morte. Invero, già nel congresso nazionale della Democrazia cristiana del 1980 venne approvato il noto Preambolo, con cui si decretava la fine della politica di solidarietà democratica e l’esclusione del Partito comunista da una possibile partecipazione al governo (preambolo Donat Cattin).
Bettino Craxi, che aveva conseguito la segreteria del Partito socialista, iniziò uno scontro frontale col Partito comunista per conquistare l’egemonia sulla sinistra; nello stesso tempo egli, attuando uno stile di azione politica basato sui rapporti di forza tra i partiti, condizionò la Democrazia cristiana nel governo del Paese. Craxi, fra l’altro, modificò la scala mobile che agganciava salari e pensioni al costo della vita. Il referendum abrogativo, voluto da Berlinguer, ebbe esito negativo. Poco dopo Berlinguer moriva.
Molti sono gli studi sulle conseguenze nella politica italiana della eliminazione di Moro e della sua azione politica. Scrive al riguardo Francesco M. Biscione:
“La crisi politica del Paese vede l’origine della fase attuale nella sconfitta della politica di solidarietà democratica. L’omicidio di Aldo Moro (1978), l’uomo politico che con maggiore lucidità aveva diagnosticato l’incipiente crisi di regime e stava lavorando ad una ricomposizione degli equilibri politici, non segnò solo la fine della politica di solidarietà. Quell’episodio anche per le sue modalità, interruppe il percorso del progetto democratico costituzionale che era stato alla base della rinascita del Paese, con la conseguenza di snaturare il senso della convivenza nazionale e costringere le istituzioni repubblicane a torsioni innaturali. Dopo il delitto Moro la politica italiana si è caratterizzata per una linea di divisione (che si è ripresentata in varie forme: il preambolo DC nel 1980 – il craxismo – il berlusconismo), che ha comportato l’esclusione programmatica (anche attraverso l’utilizzo dei media televisivi) di settori essenziali della società (sia masse sia élite politiche) dall’esercizio del potere. Questa linea di divisione caratterizza da oltre un trentennio una fase di declino civile e politico del Paese che la cultura e la politica democratiche non hanno ancora valutato in tutta la sua portata”.
A prescindere dalle suddette valutazioni, che si possono condividere o meno, resta il fatto incontrastabile della eliminazione violenta di Moro e della sua linea politica. Non si può dire come sarebbe stata la politica italiana se quel drammatico evento non fosse avvenuto. Ma è assai probabile che non ci sarebbe stata l’involuzione democratica che si è verificata successivamente e l’enorme corruzione pubblica che ne è seguita.
Ritengo, perciò, che non ci sarà una vera ripresa della democrazia in Italia fino a quando non si conosceranno pienamente le motivazioni politiche che hanno portato alla soppressione violenta, e quindi sicuramente antidemocratica, di Aldo Moro e della sua azione politica. È necessario, pertanto, che le indagini vadano portate avanti per raggiungere il predetto risultato. La ripresa della democrazia potrà ricominciare dal punto in cui è stata interrotta l’azione politica di Aldo Moro.