Considerando l’io e il tu
C’è uno scanzonato motto popolare che la dice lunga sui guasti dell’io, e in conseguenza del tu, più di molti trattati psico-filosofici: Tutti pensano a sé, solo io penso a me. Li vedo quando sono in autostrada i macchinoni a 180 all’ora che ti guardano come un fastidioso intruso se osi non aver smesso di sorpassare quando sopraggiungono e non lasciargli subito strada; sembrano gridare: Io io io io Me!. È prepotenza ma è naturale, diranno molti lettori, e invece non è solo naturale, è naturale ma con la distorsione del male, anche nella mente, è cioè ideologia. Perché l’io ideologico non solo vuole tutto per sé, ma lo vuole dal tu, il quale perciò per difendersi è costretto a diventare anche lui un io ideologico (Io Me!). Ma tu ce l’hai sempre con l’ideologia, diranno altri; come se all’età della pietra o dei romani o dei barbari non ci fosse l’egoismo. C’era, ma non presumeva ideologicamente di chiamarsi un diritto e di pretendere il premio. Lo ha fatto da quando si è cominciato a ragionare giuridicamente e filosoficamente sui diritti divini, e poi sui diritti umani e cioè sull’uomo, maturando, sì, nei secoli più recenti, grandi progressi rispetto a ingiustizie del passato, ma dimenticando nell’astratto uomo Giovanni e Luigi, Francesca e Lucia. Perché amare l’uomo è difficile ma non è impossibile, e questo amore si chiama uguaglianza, ma amare lui, lei nella loro singolarità unica ha un altro nome giuridico, parità, che è molto più sottile e complesso di uguaglianza; ed è di fatto, non sulla carta, impossibile. Sì, è impossibile amare sul serio e nel concreto singolare l’altro/a, è impossibile per l’io ideologico che conosce solo diritti astratti e bisogni intrattabili e fin qui sì, oltre no: da cui rottura di amicizie, matrimoni, ecc. È impossibile, all’io ideologico, non essere solo e spesso disperato e mascherato di godimento e, chiuso in sé stesso, non avere sapore di cenere e di morte. Negli ultimi secoli si sono moltiplicati i diritti, in certa misura anche i doveri, ma come slegati e dissociati tra loro; e questa dissociazione era ideologica, diceva, anzi sottintendeva: 1’uomo è un animale mortale, ha diritto a cercare la felicità ma, poiché non può trovarla che parziale, breve ed effimera, deve proteggerla con la staccionata dei diritti e permetterla all’altro, quando va bene, lasciandogli un certo spazio; ciascuno gustando solitario (così è nato l’edonismo e poi il consumismo) quello che può, senza pestare e lasciarsi pestare i piedi. Insomma un condominio, ma senza troppe riunioni, che si sa come spesso vanno a finire. Però in questo modo il tu dell’io è diventato un lui/lei, un poco av-vicinabile altro, e l’io del tu ugualmente si è allineato tra i lontani lui/lei. C’è una scena de La cantatrice calva di Ionesco che è degna di Eschilo, di Shakespeare e delle peggiori sciagure del XX secolo, anche se è in chiave comica. Un lui e una lei si trovano in uno scompartimento ferroviario l’uno di fronte all’altra. Educatamente e formalmente cominciano a scambiarsi informazioni reciproche, scoprendo lentissimamente, battuta dopo battuta, di abitare nella stessa città, nello stesso quartiere, nella stessa via, nello stesso caseggiato, allo stesso piano, nello stesso appartamento, di avere la stessa figlia, di essere gli stessi coniugi signori Smith; mentre lei conclude con una potenza, tragica, nel comico, forse inuguagliata: Donald, sei tu, darling!. Dopo tanti secoli formalistici e classisti oggi sembra giusto il rapporto immediato io-tu, parlare, chiacchierare, facilitare, spesso sbracare. È appunto un’illusione questo darsi del tu universale e inappropriato: l’adolescente che lo dà all’anziano sconosciuto, la familiarità improvvisata e pretestuosa o persino imposta tra estranei, mentre invece il tu è una conquista perché l’intimità è un intrecciato avvicinamento, delicato e profondo, oppure diventa una intollerabile prevaricazione. È vero e non inventato il rapporto disciplinare che, al tempo della leva obbligatoria, un caporale sgrammaticato e offeso fece alla recluta perché dava del tu a me che sono voi. Ma se vogliamo spingerci ancora più in là nell’analisi di questo così necessario e così sfuggente incontro io-tu, non abbiamo che l’imbarazzo, anzi la vertigine della scelta. L’innamoramento, che quando è autentico è un pallido ma veritiero riflesso dell’amore di Dio, è un’esperienza profonda di dislocazione della personalità: l’io non solo ama, ma si sente tu, perciò non può fare a meno del tu come di sé stesso.Ma, partendo da questo trampolino, saltiamo nel Vangelo. Perché Gesù chiede, con apparente spietatezza, a chi vuol essere suo discepolo di rinnegare sé stesso? Perché è una questione di amore, non solo di dovere. Infatti nella sublime preghiera al Padre che il Vangelo secondo Giovanni ci trasmette, Gesù dice con inimitabile intimità: Io in loro e Tu in me. Questa è la fondazione eterna del vero rapporto di distinzione-identità fra io e tu. La povera ideologia, che sa di queste cose? Avanza diritti e circoscrive doveri con meticolosa e minuziosa avarizia, crede di guadagnarci concedendo all’altro il meno possibile e pretendendo il più possibile, e invece perde quasi tutto. Il peccato ideologico (questo è il suo nome proprio) soffre oltretutto di un effetto ottico capovolgente: ti fa sembrare bellissima la truffa che si appresta a rifilarti; il che nel nostro discorso significa: più Io-Me possibile, meno tu possibile. Ti succhio, ti uso, ti getto, per poi accorgermi invariabilmente che ho succhiato usato gettato anche me stesso. Ma come, non erano rose e fiori, non era vero che bisogna godersela finché si può? Se le parole del Vangelo una volta tanto venissero prese laicamente sul serio, anche solo come istruzioni per il vivere, si scoprirebbe, rovesciato l’inganno di cui sopra, che per trovarsi bisogna perdersi (= amare), per vivere si deve morire; sul serio, molto più sul serio che morire semplicemente sul piano fisico-materiale; che per la gioia occorre attraversare un dolore essenziale, creativo. Ma questa è vita, non si capisce più con le sole parole, neppure solo con quelle del Vangelo, perché bisogna metterle in pratica, abolire la differenza che c’è tra il nuoto teorico e il gettarsi in acqua col rischio di affogare, ma anche con quello di imparare a nuotare. Vorrei assicurare chi legge che questa è esperienza di molti, di moltissimi, a cominciare dai santi, ma anche di umili e semplici persone di buona volontà, che continuano a farla, quest’esperienza, non solo individualmente, ma, il che è molto più bello, insieme.