Consenso della Nato alla base Muos
Continuiamo la nostra intervista al generale Mini sulla questione del Muos.
Si può dire che, nel caso concreto, abbiamo avuto a che fare con una proposta Usa impossibile da rifiutare…
«In realtà non c’è stata neppure una proposta. Gli Stati Uniti hanno ritenuto di poter fare in Italia ciò che hanno voluto. Come sempre. Sul piano formale hanno fatto passare le nuove strutture, come un adeguamento tecnologico delle vecchie. Sul piano sostanziale ci hanno fatto credere che il Muos servirà anche la Nato e la difesa dell’Italia. E come sempre ci abbiamo voluto credere. Come se fossimo gli sconfitti della Seconda guerra mondiale o, peggio, i traditori. Non ci si vuole rendere conto che oggi è cambiato tutto: gli Stati Uniti non sono più i vincitori assoluti, anzi, da 50 anni a questa parte hanno fallito tutte le guerre e hanno riversato la loro aggressività sul piano economico e finanziario come su quello politico. Ma anche in questo caso molto dipende dall’atteggiamento di chi deve subire e non si concede neanche il diritto di porre delle domande. Negli ambiti internazionali viene apprezzato proprio chi pone domande ragionevoli come espressione di sovranità e dignità. Invece, specie in ambito militare, nei rapporti con la Nato noi italiani abbiamo avuto dei rappresentanti costretti a tacere perché privi di guida politica, perché platealmente schierati con gli interessi americani o perché incapaci perfino di capire l’oggetto della discussione per mancanza di preparazione tecnica o di adeguata conoscenza adeguata della lingua inglese. Ad un certo punto, nel 90-91, la Nato, dovendo rispettare il modello decisionale che prevede il consenso unanime di tutti i membri nelle decisioni importanti, ha deciso di adottare il criterio del “silenzio assenso” che si sposa alla perfezione con coloro che restano zitti e, quindi, acconsentono a tutto. Si è trattato di una rivoluzione procedurale importante che ha tolto di mezzo ogni ostacolo e imbarazzo. Così è passato il Muos, l’allargamento della base di Vicenza, lo spostamento del comando navale Usa a Napoli, la ristrutturazione e potenziamento delle altre basi italiane e così via».
Siamo rimasti, quindi, una piattaforma aereo navale per la guerra…
«È stata finora la configurazione migliore per una penisola nel Mediterraneo come base operativa e logistica, pensiamo alla sede ideale assicurata in Sardegna per la manutenzione dei sommergibili a propulsione nucleare e lo stoccaggio di armi e munizioni. Altre basi situate in Grecia e Turchia erano molto più problematiche ed esposte a pericoli. Inoltre, in Italia le basi statunitensi non sono mai state veramente contestate dalla popolazione. Non c’è mai stata una crisi simile a quella di Okinawa che da anni contesta aspramente la presenza americana o una crisi simile a quella spagnola o delle Filippine che, addirittura, fecero chiudere le basi stranere. Di fatto, sono cresciuti movimenti contrari alle basi in Sardegna quando gli americani avevano già deciso di andarsene via.
Oggi il costo delle basi è un problema serio, perché gli americani avrebbero la convenienza a chiuderle quasi tutte ma trovano Paesi che si oppongono perché piccole realtà locali vivono sull’indotto dell’attività delle basi militari. Nel vicentino, ad esempio, la presenza americana non è vitale per l’economia locale, ma fa comodo ai pochi operatori inseriti nel circuito logistico della caserma Ederle che ormai ha solo la funzione di dare ospitalità e sicurezza alle famiglie di militari che sarebbero meglio predisposti operativamente spostando la sede nell’Est dell’Europa».
Eppure la base è stata estesa nonostante una certa opposizione popolare…
«Anche quando esistono, tali manifestazioni di dissenso sono scoordinate perché il problema delle basi è delle nazioni che le ospitano e non degli americani. L’Italia con i suoi governi non ha mai sollevato obiezioni, anzi ha rassicurato i vertici statunitensi. Ha poco senso la manifestazione della popolazione locale contro gli Usa che legittimamente possono dire: “Rivolgetevi al vostro governo”».
Non le sembra che, nonostante tutto, tali basi militari rimangano anche perché sono un presidio, nel disordine globale, contro nuovi possibili conflitti? Come interpretare, ad esempio, la crescita, anche di potenza bellica, della nuova potenza cinese?
«La minaccia di un intervento cinese è uguale a zero. Si agitano cose che non esistono. Studio la politica cinese da 30 anni e sempre più mi convinco che la loro formidabile crescita economica non ha bisogno di esercitare la forza per cambiare gli equilibri mondiali. L’uso dello strumento bellico in Europa o altrove è fuori dai loro piani. In continuità con la loro antica cultura, i vertici cinesi vogliono essere l’ago della bilancia, non il piatto. Preferiscono segnalare la mancanza dell’equilibrio che qualcun altro dovrà rimettere in sesto. Ormai la Cina dei conglomerati, di Stato e privati, esprime un potere economico di primo livello sui mercati finanziari e nel settore delle grandi infrastrutture. Emblematica la loro strategia di presenza nel continente africano. E in tema di minacce, sento di poter dire che assolutamente neanche la Russia esprime un pericolo militare reale».
In tale quadro, quindi, come si giustifica la stazione satellitare di Niscemi?
«Il Muos ha una valenza strategica globale che nessuna altra base statunitense in Italia possiede, perché è uno dei quattro siti mondiali che permettono il controllo delle operazioni terrestri, aeronavali e satellitari a distanza. Ma si tratta di qualcosa che va oltre lo strumento necessario alla movimentazione delle truppe di terra, di aria e di mare. Il Muos è il pilastro nel controllo di tutto il sistema delle comunicazioni in generale, dei traffici mercantili assicurati dalle navi e dagli aerei civili. Lo strumento militare esprime solo una minima parte della potenza di un Paese che è costituito dal controllo delle informazioni».