Il conflitto tra società aperta e “tribù” in Europa
Il noto economista Stefano Zamagni, in un’intervista a Città Nuova del 2016, ci ha detto che sarebbe stato necessario «chiudere in un “convento” i rappresentanti di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia» per costringerli a riconoscere apertamente che «bisogna cambiare la struttura portante dell’Unione europea, altrimenti destinata a cadere a pezzi».
Oggi la situazione si è ulteriormente aggravata e le polemiche sorte intorno alla formazione del nuovo governo lo hanno messo in evidenza. Continuando il dibattito utile a un serio approfondimento in materia, dopo le interviste con gli economisti Ferri e Becchetti, oltre a un affondo storico con Michele Dau, abbiamo sentito Flavio Felice che è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise e, insieme a diverse altre cariche, presiede il Centro Studi Tocqueville-Acton, un «think-tank indipendente, di ispirazione cattolica e liberale», come si definisce nel suo sito ufficiale. Il professor Felice fa parte del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici italiani.
Il conflitto sul nome di Paolo Savona in merito alla formazione del nuovo governo ha fatto emergere, visto curriculum ed età del personaggio, un pezzo sommerso della nostra storia e cioè il conflitto sulla modalità della nostra adesione al trattato di Maastricht. È stata una scelta lungimirante e necessaria oppure, come affermano alcuni, è incompatibile con la Costituzione e abbiamo abdicato ad ogni possibilità di autonoma politica economica sacrificando occupazione e crescita?
Ogni discorso sulla prospettiva dell’unità europea andrebbe considerato entro i poli dialettici delle forme monista e poliarchica di distribuzione del potere. Non è un caso che Benedetto XVI nella Caritas in veritate (nn. 57 e 67), per dare concretezza alla “via istituzionale della carità” in campo sovranazionale, rinvii ai principi di solidarietà, di sussidiarietà e di poliarchia: i caratteri specifici dell’autorità politica che la renderebbero capace di governance globale e conforme all’imperativo del rispetto della dignità di ciascuna persona, coinvolta, come ricorda Francesco nella Lumen fidei (n. 40), “in un tessuto di relazioni comunitarie”.
Chiarito questo punto, partiamo da un presupposto teorico-politico, dal momento che il processo di unificazione europeo, benché abbia prodotto istituzioni e assetti istituzionali con un forte impatto nel mondo dell’economia, rappresenta innanzitutto il tentativo più originale di andare oltre la forma dell’ordine politico che ha contrassegnato l’avvento della modernità: lo “Stato”. L’ “esperimento europeo” si comprende ricorrendo a nuove categorie interpretative, abbandonando le tradizionali che, passando per una catena secolare di guerre e di tregue (il tempo che intercorre tra una guerra e l’altra), ci ha condotto alla catastrofe immane delle due guerre mondiali.
Cosa ci ha consegnato questo esperimento?
Un nuovo modello interpretativo capace di andare oltre le categorie classiche di “sovranità nazionale”, di “Stati nazionali” e di “Ragion di Stato”: tutti derivati del principio “monistico” che fonda la nozione di “Stato”. I Padri fondatori del processo d’integrazione europea ci hanno consegnato, magari in forma appena abbozzata e non del tutto teorizzata, un esperimento di nuova statualità, o, se si preferisce, i contorni di una nuova forma di ordine politico non più “monistico” ma “plurarchico” (direbbe Luigi Sturzo), indubbiamente alternativo allo “Stato nazione” e erede dello “Stato federale”, almeno nella misura in cui entrambi condividono la pace come valore fondante e ragione ultima delle istituzioni politiche ed economiche. A questo punto invito a leggere il discorso di Luigi Einaudi del 29 luglio del 1947 all’Assemblea Costituente.
Cosa affermava Luigi Einaudi?
In quell’intervento, il futuro Presidente della Repubblica ebbe modo di proporre il superamento della rigida divisione dell’Europa in Stati sovrani nazionali. Einaudi era convinto che l’Italia avrebbe dovuto mostrare ai Paesi fratelli dell’Europa una capacità d’iniziativa volta alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa, attraverso quella che egli chiama la predicazione della “buona novella”: l’idea della libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta.
La visione europeista di Einaudi, ma con lui di Sturzo, di De Gasperi, di Schuman, di Adenauer e di una folta schiera di politici e di teorici, considera conclusa l’epoca degli Stati nazionali e vede nel processo d’integrazione i tratti di un nuovo ordine politico; sono consapevole che, in tempi di neo-sovranismo e di populismo, che del primo si nutre, una simile posizione appare controcorrente, se non eccentrica.
L’alternativa europea allo Stato-nazione è il modello della “cooperazione strutturata”, sperimentato sin dalle origini del processo, a cominciare dalla fondazione della CECA e razionalizzato prima a Maastricht e cinquant’anni dopo a Lisbona. La particolarità di tale modello risiede nella decisione dei singoli Stati di trasferire funzioni di sovranità non ad uno Stato consolidato, bensì a favore di un processo, evidenziando, in tal modo, un “paradigma” del “processo”, inteso come “statualità in via di formazione”.
Lei mi ha chiesto se la scelta di aderire all’unione monetaria sia stata una scelta lungimirante. Credo proprio di sì, a condizione che il processo continui e vada nella direzione dell’unione economica e politica. L’Euro esprime un sistema di regole teso alla garanzia del buon governo della moneta, limitando la discrezionalità dell’autorità politica, sia a livello di Stati membri sia a livello comunitario. È questa una delle principiali lezioni di Einaudi, il quale, riflettendo dal suo esilio ginevrino sul futuro dell’Europa e dell’ordine internazionale, individuava un nesso diretto tra stabilità monetaria, struttura federale dello Stato e superamento della lotta di classe, l’esatto contrario della situazione in cui a dominare la scena siano l’inflazione, lo Stato accentrato e i gravi squilibri sociali.
Quanto è in pericolo, attualmente, l’Unione europea?
Il grande pericolo che oggi corre l’Unione Europea è di fermare la sua lunga marcia verso una piena unione economica e politica e che l’approccio che abbiamo definito “cooperazione strutturata” si trasformi in un neofunzionalismo, privo di una qualsiasi anima e preda delle lobbies.
Corollario del “buon governo della moneta” è il “buon governo dell’economia” che prevede la neutralizzazione del deficit spending e la costituzionalizzazione, secondo il principio di sussidiarietà, dei poteri fiscali ai vari livelli in cui si articola la statualità europea. Infine, s’impone come necessaria una riforma istituzionale che possa dare senso e sostanza all’invocazione, altrimenti propagandistica, per un’Europa “politica”. Una riforma siffatta, intesa in senso sussidiario, poliarchico e relazionale (distante dall’idea di Europa come “super-Stato”), mirerebbe a ridurre la percezione di quel “deficit democratico” che accompagna sin dai suoi esordi il progetto europeista.
I politici europei devono decidere se fermarsi a metà del guado, lamentandosi di essersi bagnati i piedi, oppure proseguire la marcia per raggiungere la sponda dell’unione economica e politica. Ne comprendo le difficoltà, soprattutto dopo dieci anni di crisi economica e l’esplosione del fenomeno migratorio. I politici hanno il problema di farsi rieleggere e comprensibilmente fanno difficoltà a prendere decisioni che scontentano l’elettorato. Tuttavia, non abbiamo un’alternativa al coraggio, alla forza di prendere decisioni bollate come impopolari e che l’attuale sistema massmediatico addita come responsabili di tutti mali dell’umanità: essere euroscettici oggi è trendy e sappiamo che nel mondo della post-verità ciò che conta non è ciò che è vero, ma ciò che funziona. Abbiamo bisogno di politici autentici, disposti anche a perdere, pur di non abdicare ai valori che fondano il processo d’integrazione europea. Mi rendo conto che le forze sovraniste, le quali alla “società aperta” preferiscono la “tribù”, possono contare sul favore dei sondaggi, sull’accondiscendenza dei media e oggi anche sulla forza di un governo nazionale, il cui primo ministro si è autodefinito fieramente “populista”. Sono tempi difficili, ma nulla rispetto a quelli vissuti dai Padri fondatori. Padri che conobbero i lutti delle guerre scatenate dai sovranisti d’allora, che subirono l’esilio voluto dai populisti dell’epoca, che, allora come oggi, pretendevano di incarnare il “popolo”, la verità su di esso e il suo spirito. Padri derisi come perdenti, perché apparentemente espulsi dal corso necessario della “Storia”, essendo sostenitori della libertà e della fraternità tra nazioni, fautori del mercato unico e della moneta unica, volendo ingabbiare la fiera volontà di potenza del “Principe” di turno con regole e procedure certe e uguali per tutti. Dunque, pur riconoscendo la difficoltà del momento, sappiamo anche che nulla di quanto stiamo vivendo noi europeisti in questi giorni sciagurati non sia già stato vissuto e patito dai nostri Padri, in maniera ben più grave e dolorosa.
Cosa ne pensa del parere diffuso relativo alla Germania come nazione che impone, a livello europeo, direttive che favoriscono solo i suoi interessi?
Forse perché la Germania in questi anni ha avuto una classe dirigente un po’ più all’altezza della situazione rispetto alla nostra? Forse perché nei momenti più difficili quelle classi dirigenti hanno saputo rinnovare le istituzioni per renderle conformi alle nuove regole che di lì a poco sarebbero subentrare? Forse perché la Germania non ha porzioni intere di territorio nazionale infestate dalle mafie e da organizzazioni malavitose di varia fattura? Forse perché la Germania ha preso sul serio una banale verità: la ricchezza di una nazione dipende dalla produttività e questa è funzione della conoscenza che s’implementa in competenze, le quali sono particolari, mai universali, e richiedono studio, investimenti, istituzioni scolastiche e accademiche d’eccellenza e, non ultimo, un alto grado di competizione, affinché nessuna vittoria si trasformi in rendita perpetua e nessuna sconfitta in esclusione definitiva. Forse perché in forza di tutte queste condizioni, le istituzioni tedesche sono più inclusive delle nostre, le quali invece mostrano un elevato grado di “estrattività”, tipico di una società servile e di un’economia neo-feudale? Il risultato è il consolidamento di oligarchie politiche, economiche e culturali, le quali, non solo detengono le maggiori quote di ricchezza nazionale, ma impediscono il processo di mobilità sociale che è alla base dell’inclusione sociale.
Andando oltre le affermazioni di facciata, sembra che ogni governo, di qualsiasi colore, non possieda margini reali per ridiscutere regole già fissate a livello europeo. È così?
Tutti i governi, compreso quello in carica, benché con toni differenti, hanno promesso fuoco e fiamme a Bruxelles, come se il nemico della crescita del nostro Paese fossero le istituzioni europee, per via del “rigore” impostoci. Chi ha parlato di “pugni sul tavolo”, chi ha tentato di conquistare il consenso elettorale attaccando la “miopia” della tecnocrazia europea, tutti hanno scaricato la responsabilità dell’immobilismo del nostro Paese, fermo da almeno trent’anni, sulle istituzioni comunitarie. Al di là del carattere puerile di un simile atteggiamento (è sempre colpa degli altri), rilevo anche una preoccupante distanza della classe politica dal principio di realtà.
Gli attuali trattati europei non ci impediscono di crescere e di investire, semmai impediscono agli Stati di utilizzare la leva monetaria per drogare il mercato comunitario. In questo contesto si inserisce il tema del “rigore”. Una retorica consumata vorrebbe contrapposti e alternativi i termini “crescita” e “rigore”: un trade-off in forza del quale un incremento della “crescita” necessiterebbe di un alleggerimento delle politiche di “rigore”.
Al contrario, crescita e rigore rappresentano le due facce di una comune medaglia. Il rigore, inteso come lotta serrata e continua alla corruzione, sobrietà della spesa pubblica, investimento selettivo, altamente produttivo e severa verifica delle performance finanziarie e industriali, non è altro che il presupposto tecnico per l’innesco di un circuito virtuoso. Il tema di fondo è che non è sufficiente appellarsi retoricamente e alternativamente alla “crescita” e al “rigore”, quanto piuttosto qualificarli, individuando nell’ottimizzazione sistemica (politica, economica e etico-culturale), che passa per la responsabilità personale, una leva fondamentale per una crescita economica che sia autentico sviluppo umano, in quanto inclusivo; è forse anche per questo motivo che papa Francesco, al pari di Giovanni Paolo II qualche anno prima, nel suo discorso del 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, individua nella cosiddetta economia sociale di mercato un modello interessante da implementare nel continente europeo.
In definitiva, la forza del modello europeo andrebbe ricercata nella sua capacità di cogliere il processo storico che si starebbe affermando, un processo che vede il declino inesorabile dello Stato-nazione e la possibilità che l’implementazione del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale ci consegni un ordine politico i cui margini delle libertà delle persone siano più ampi, in quanto meno dipendenti dall’arbitrio del “Principe” e, per citare Wilhelm Röpke, una civitas più umana.