Conflitto: occasione di ri-conoscimento
Fermiamoci un momento a vedere cosa evoca in noi la parola conflitto. Probabilmente le prime immagini che si fanno strada davanti ai nostri occhi ed i primi pensieri che ci vengono in mente risultano spiacevoli… liti accese, tensione, forse aggressività se non addirittura distruzione. Com’è possibile allora che il conflitto si presenti in una relazione d’amore? In una coppia, in famiglia… sembra una contraddizione interna, un segnale che qualcosa non va, un preludio alla fine dell’amore… ma è proprio così?
La psicanalista intersoggetiva, Benjamin (2015), sostiene che il legame d’amore, in particolare quello di coppia, sia costitutivamente fragile e, di conseguenza, soggetto alla continua rottura. Ma, secondo l’autrice, tale precarietà non è negativa poiché è proprio grazie ad essa che è possibile “riparare”, ri-conoscere (inteso anche come conoscere nuovamente) l’altro, alimentare la storia d’amore. Proprio come dimostrato dagli studi sulla strange situation (Ainsworth et al., 2015) in cui il bambino trovandosi in una situazione stressante reagisce dapprima chiudendosi, ma poi provando subito a “riparare” la rottura, a ricostruire il rapporto con la madre grazie alla sua resilienza affettiva.
Riconoscere l’altro significa poter vedere e accogliere come legittime le sue emozioni, i suoi bisogni, la sua identità, anche quando sono diversi dai propri. Come avviene nella relazione madre-bambino, perché possa esserci una rigenerazione, la rivitalizzazione del rapporto, è necessario che il riconoscimento sia reciproco.
Riconoscere ed essere riconosciuto e sostenuto dalla persona amata è la base della relazione d’amore. La parola “amore” può essere sostituita dalla parola “riconoscimento”, tale è la sua importanza per poter vivere relazioni nutrienti e per la salute mentale soggettiva.
Naturalmente la diversità di opinioni, di modi di fare, i differenti bisogni che possono presentarsi nella coppia sono proprio ciò che rende difficile potersi riconoscere reciprocamente. Tante volte facciamo fatica ad accogliere un punto di vista diverso dal nostro e ci irrigidiamo sulla nostra posizione. Il riconoscimento ha molto a che vedere con l’empatia, cioè con l’entrare in sintonia con ciò che prova l’altro. L’empatia può avvenire su due livelli, quello cognitivo e quello emotivo; quando sono coinvolti entrambi i livelli avviene il riconoscimento.
Perché il riconoscimento sia pieno, occorre anche però, un’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti della relazione. Si tratta di una posizione interiore, di una scelta che ha a che fare anche con un lavoro su di sé che ciascuno dei partner è chiamato a fare; poiché la capacità di riconoscere l’altro è strettamente legata alla capacità e possibilità di riconoscere sé stessi, in particolare nei propri limiti, nelle proprie fragilità, riconoscere tutte quelle parti di noi che non ci piacciono, che non vogliamo vedere, di cui non vogliamo prendere consapevolezza. Riconoscere quindi, prima di tutto, “l’estraneo” che è in noi come dice Cavaleri (2007). Il conflitto diviene allora luogo di riconoscimento e non tentativo di sovrastare l’altro.
La psicoanalista Benjamin prendendo spunto dalle teorie di Winnicott (1960), in particolare dal concetto di “aggressività esplorativa”, che l’autore utilizza per descrivere l’atteggiamento del bambino, il quale quando vede un giocattolo prima ci gioca un po’ e poi prova a distruggerlo per capire come è fatto, trova un’originale chiave di lettura delle relazioni. Ogni relazione, spiega, è destinata ad essere distrutta; ma non per distruggere al fine di uccidere, ma al fine di conoscere l’altro. Distruggere per registrare la radicale alterità dell’altro, per capire il radicalmente diverso e non idealizzarlo.
Anche la psicoterapia della Gestalt guarda all’aggressività, non alla violenza, come ad-gredere, andare verso, come un’energia vitale che consente di raggiungere l’Altro, di “morderlo” proprio come fa il bambino nella fase di dentizione, per conoscerlo e assimilarlo non per annientarlo (Spagnuolo Lobb, 2011). Tutto ciò, in una relazione, non avviene una tantum, una volta per tutte, ma ha a che fare con il costante evolvere di ciascuno di noi e quindi delle relazioni in cui siamo coinvolti quotidianamente. Il conflitto, possiamo quindi dire, ha a che fare con la vita, con l’essere vivi. In un suo intervento, durante un incontro con il movimento eucaristico giovanile nel 2015 anche papa Francesco parla del conflitto come un elemento vitale perché, dice, «non ci sono le tensioni e non ci sono i conflitti soltanto nelle cose morte».
Nel conflitto, se vissuto così, con questa tensione verso l’altro troviamo allora una doppia risorsa: poter ri-concoscere, conoscere nuovamente ogni volta, e accogliere più autenticamente e profondamente non solo l’altro ma anche noi stessi.
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