Il conflitto di coscienza davanti alla guerra in Ucraina

Vanno incoraggiati sempre il negoziato e la cooperazione internazionale per arrivare ad un disarmo bilanciato. La logica delle armi è autodistruttiva, ma non si può negare la resistenza armata di una nazione sotto attacco. Un contributo per il dibattito nel focus di Città Nuova
Guerra in Ucraina (AP Photo/Rodrigo Abd)

La guerra uccide, ferisce, mutila, umilia, destabilizza, devasta e distrugge (non solo case, scuole, strade, ponti, edifici pubblici, coltivazioni…, ma anche speranze e quel prezioso patrimonio che è la reciproca fiducia e la capacità di collaborare tra popoli e nazioni, cosa indispensabile per affrontare le grandi sfide collettive della povertà, della disuguaglianza e dell’ambiente).

Dal 24 febbraio questo orrore (in versione europea, perché altrove la guerra è in corso da sempre) scorre sui nostri schermi.

La guerra non fa tutto ciò solo a chi si trova dall’altra parte, ma lo fa anche ai ragazzi di chi attacca, forzati ad uccidere e distruggere (e, per riuscirci meglio, spinti ad odiare), e al tempo stesso mandati a ricevere lo stesso trattamento da parte di sconosciuti e non scelti “nemici”. E poco cambia sul versante morale se all’obbligo della coscrizione si sostituisce l’incentivo di una cospicua retribuzione a militari di mestiere o mercenari.

La guerra è “sacrilega”, ha detto il papa, che ha anche criticato il gigantesco spreco di risorse della spesa in armamenti.

I suoi accorati e ripetuti interventi hanno incoraggiato forti prese di posizione da parte di vari leader e commentatori: l’invito agli ucraini ad arrendersi per evitare il peggio, la condanna dell’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Occidente, la contrarietà alle “sanzioni”. Qui di seguito esprimerò un parere diverso, che, almeno a prima vista, potrebbe sembrare in contrasto con la posizione del papa.

Dato che stiamo parlando delle decisioni interdipendenti di più attori, non sono tanto le singole scelte, ma le combinazioni di scelte che dobbiamo confrontare. Nel caso più semplice con due Paesi in contesa tra di loro, ciascuno dei quali può decidere se combattere o non combattere, una cosa è confrontare la combinazione di scelte “tutti e due combattono” con la combinazione “nessuno dei due combatte”, ossia la guerra aperta con la pace: la prima è “ripugnante” (l’espressione è ancora una volta del papa) e sul piano pratico è luttuosa e disastrosa.

Altra cosa è confrontare la combinazione “tutti due combattono” con la combinazione “il Paese 1 combatte, il Paese 2 non combatte”: se il Paese 1 attacca, il Paese 2 dovrebbe scegliere la resa? Per rispondere occorre distinguere il piano morale da quello pratico.

Tra i tragici resoconti di questi giorni mi ha colpito l’episodio di una donna scampata allo stupro da parte di soldati russi grazie all’intervento all’ultimo momento dalla polizia militare. La donna purtroppo ha poco da rallegrarsi, perché presto si accorge che il marito, che aveva tentato di opporsi alla violenza, è stato ucciso. Ora, il comportamento del marito è da condannare moralmente perché di fronte agli aggressori non si è attenuto alla non violenza? E sul piano pratico, siamo sicuri che, se in questi casi i mariti prendessero la linea di lasciar fare senza reagire, i danni alla popolazione connessi agli stupri diminuirebbero?

Allargando il ragionamento al di là di questo caso, la rinuncia a combattere da parte del Paese aggredito comporta abusi di vario genere, tra cui l’imposizione di un nuovo regime politico, la sottrazione di beni, stupri e altri abusi da parte degli occupanti, nonché la carcerazione di cittadini con posizioni politiche non favorevoli agli invasori, senza poter escludere esiti come quello famigerato di Srebrenica dove gli uomini che combatterono ebbero la stessa sorte di quelli che si arresero, ossia la soppressione a migliaia, mentre le donne subirono violenze feroci.

Se in un dato contesto politico, culturale e militare ci sia da aspettarsi che le conseguenze siano più lievi optando per la resa piuttosto che per la difesa è una questione di valutazione, che non può essere risolta con affermazioni in linea generale. Nel caso in esame penso che una resa immediata dell’Ucraina avrebbe risparmiato il martirio di Mariupol, di Bucha e degli altri inferni di questa guerra; sull’altro piatto di questa tragica bilancia c’è una prolungata occupazione, con tutto ciò che essa comporta, accompagnata e seguita da anni di repressione in tutto il Paese, le cui vittime è difficile quantificare, senza dimenticare la sopraffazione della libertà, che pure penso abbia il suo peso. Certo, se l’invasore riesce nel suo intento le due liste di sciagure si assommano.

Tornando alla questione di principio, alcuni condannano la risposta armata quand’anche attaccati, ma non lo fa la dottrina sociale della Chiesa cattolica, neanche nella recente enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco.

Ciò che, nella mia lettura, è da condannare è la scelta del campo di battaglia, anziché del negoziato (quando la controparte è disponibile a discutere); altra cosa è il resistere a chi sia già passato all’uso delle armi e non abbia intenzioni di negoziare, se non per lasciar più tempo alla conquista e poter poi imporre condizioni più penalizzanti. Per questo, mentre mi è difficile valutare i benefici e i costi sul piano fattuale della scelta di resistere compiuta dai vertici, dall’esercito e dal popolo dell’Ucraina, non mi sento di deprecarla.

Difendersi con le armi in situazioni di questo tipo è a mio avviso giustificato, ma c’è il pericolo che facilmente si finisca per travalicare gli intenti iniziali: gli invasi possono diventare invasori; il Paese vittima di abusi contro civili e militari può diventare a sua volta carnefice.

La logica militare può passare da scelta necessitata ad opzione privilegiata, verso la quale i nazionalisti cercheranno di entusiasmare i cittadini; infine l’industria delle armi, rafforzata nel momento dell’emergenza, potrà continuare a fare lobbying verso il riarmo e l’opzione militare.

Qui occorre una seria, non facile, sorveglianza. In pratica, cosa diremmo nel momento in cui la guerra dovesse volgersi a favore dell’Ucraina? E l’Europa la sosterrebbe, la incoraggerebbe a stravincere, o a fermarsi e a ricercare accordi ragionevoli, che non creino nuove ingiustizie e non pongano le premesse per nuove future tragedie?

Venendo alla condanna delle spese militari, anche qui per dare un giudizio occorre chiarire quali combinazioni di scelte intendiamo confrontare. Una cosa è confrontare la combinazione “ambedue i Paesi si armano poco” con la combinazione “ambedue si armano molto”.

Qui le ragioni sono forti per condannare la spesa in armamenti: quante cose migliori si potrebbero fare con quei soldi! Ma se confrontiamo “ambedue si armano molto” con “ il Paese 1 si arma molto, il Paese 2 si arma poco” non è affatto chiaro che questa seconda alternativa debba essere raccomandata, e ciò per due ragioni: lo squilibrio delle forze incoraggia la scelta della guerra da parte del potenziale aggressore (credo che la guerra in Ucraina non sarebbe iniziata se l’arsenale militare di Kiev fosse stato più cospicuo; parlando brutalmente di soldi, qualche decina di miliardi di dollari in più sprecati in spesa militare avrebbero potuto risparmiare all’Ucraina centinaia di miliardi di perdite di reddito e di danni al patrimonio abitativo e infrastrutturale, morti e feriti a parte). E  poi, qualcuno dall’esterno può pretendere che un Paese si metta deliberatamente in condizioni di soccombere in caso di guerra?

Rileggendo quello che ho scritto mi prende un certo senso di disagio. Sto benedicendo la guerra? Torno a ripensarci. Il disagio viene dal fatto che stiamo confrontando un orrore con un altro, e il meglio che possiamo fare, nella speranza e nell’impegno che si aprano altre vie, è scegliere quello minore.

L’esistenza degli eserciti – ossia l’istituzionalizzazione della capacità di violenza organizzata – non l’ho scelta io, non l’abbiamo scelta noi, e credo che per molto tempo ancora non potremo, anzi non dovremo farne a meno unilateralmente. Al tempo stesso mi rendo conto che senza un movimento pacifista che gridi l’assurdità di autocostringerci ad uccidere innocenti che nemmeno conosciamo, e la testimonianza degli obiettori di coscienza, il rifiuto della guerra non riuscirà mai ad avere un posto adeguato nelle stanze della politica. Alla quale, però, non sono permesse fughe in avanti verso l’utopia, che solo col tempo potrà diventare realtà.

Lo scenario attuale è molto più complesso di quanto io sia riuscito a dire fin qui, con gli Usa a tirare fortemente da una parte, la Cina a supportare tacitamente la sfida russa al predominio dell’Occidente, molti altri attori meno in evidenza, e il blocco europeo, di cui facciamo parte, incerto sul da farsi.

Mi limiterò ad alcune considerazioni. I dilemmi politici e morali del Paese aggredito, di cui abbiamo appena parlato, si estendono con alcune importanti somiglianze e differenze anche ai suoi alleati e ai Paesi che vedono con preoccupazione un successo dell’invasione, temendo o di trovarsi l’aggressore alle porte o di veder premiata la logica dell’aggressione.

Un’importante differenza è che il sangue versato e gli edifici distrutti durante una guerra di difesa non sono i propri, il che può portare a sottostimare i costi della resistenza, o a disinteressarsene. Un’ulteriore importante differenza è la possibilità di adottare, in aggiunta o in alternativa all’invio di armi, tutta una serie di “sanzioni” commerciali e finanziarie.

In assenza di un potere superiore a quello dei contendenti, le sanzioni, ossia il troncamento di relazioni economiche con un Paese ritenuto colpevole di azioni riprovevoli (come appunto un’aggressione militare), sono uno dei pochi strumenti non di tipo militare con cui può esercitare una pressione sull’aggressore la comunità internazionale (o, meglio, quella parte di essa che all’aggressore intende opporsi).

Le sanzioni, però, hanno una caratteristica comune a molte “punizioni”:  oltre a  danneggiare il Paese punito, sono costose anche per il Paese punitore, e creano altri effetti indesiderati: mentre si vorrebbero colpire soprattutto le capacità belliche e i vertici del Paese aggressore, le sanzioni colpiscono anche la popolazione, che tra l’altro potrebbe essere spinta ad odiare ulteriormente gli avversari e a stringersi attorno ai propri leader, oppure, quand’anche contraria alla guerra, potrebbe avere pochi modi per influenzarne le decisioni.

Il Paese colpito può cercare di sottrarsi agli effetti delle sanzioni riorientando le proprie relazioni economiche verso Paesi terzi, il che può rendere permanente il danno per Paesi sanzionatori; le sanzioni indeboliscono economicamente i Paesi sanzionatori, alimentando l’inflazione, danneggiando importanti settori produttivi e causando recessione e disoccupazione, il che oltretutto rischia di rafforzare i raggruppamenti politici antisistema.

Ciononostante penso che la gravità della situazione sia tale che l’Europa debba dare forti segnali di sganciamento dalla sua imprevidente dipendenza dal petrolio e dal gas russo, per l’importanza che questo flusso di denaro ha nel dar forza al governo russo, e quindi anche al suo apparato bellico, mentre gli effetti sulla popolazione sono solamente indiretti (ben più penalizzante per un Paese sanzionato sarebbero ostacoli all’importazione di prodotti essenziali). Resta la sfida di condividere con la maggioranza degli elettori occidentali la consapevolezza che i sacrifici delle sanzioni di oggi sono un costo che vale la pena pagare per ostacolare la prosecuzione della guerra e per scoraggiare ulteriori guerre di aggressione in seguito.

Infine, a mio avviso, di fronte ad un’autocrazia armata fino ai denti, la prevenzione della guerra deve manifestarsi, non attraverso il rifiuto di dissuaderla procurandosi armi, ma attraverso un rinnovato dialogo internazionale che, oltre ad instaurare una varietà di piani di cooperazione, porti ad accordi di disarmo bilanciato.

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