Cuba. I confini di un popolo
Sono anni che mi ripeto: «Voglio vedere Cuba prima che tutto cambi». Una settimana prima della mia partenza muore Fidel Castro. Atterro all’aeroporto José Martí de L’Avana, con il mio zaino fotografico il 4 dicembre 2016. Il giorno dei funerali del lider maximo. Non visiterò tutta l’isola, resterò nella capitale. Siamo in 8 fotografi, veniamo da varie regioni d’Italia per partecipare a un workshop fotografico. Non è la prima volta che partecipo a questi laboratori, con le stesse modalità ho visitato lo Zambia nel 2010 e il Vietnam e il Laos nel 2013. È un’esperienza formativa importante perché si ha la possibilità di confrontarsi e di imparare cose nuove. Ognuno di noi racconterà una storia, sceglierà un tema specifico per raccontare quest’isola caraibica. I primi 4 giorni li passo a guardarmi intorno, a cercare di capire, con l’aiuto di una fixer (una persona assunta dal giornalista come aiuto sul campo per quanto riguarda logistica, contatti e interpretariato, ndr), com’è la realtà di questo popolo. Vivo la sua quotidianità, conosco la sua famiglia, vado con loro a fare la spesa con la tessera statale e cucino insieme a sua madre i piatti tipici. Ne assaporo profumi e tradizioni e devo dire che l’elemento principale è l’olio per friggere, come un po’ in tutto il Sudamerica. Suo fratello fa l’autista e la spola fino a Pinar del Rio per far conoscere i coltivatori di tabacco, mentre con lei esploro i quartieri de L’Avana vecchia e il centro, non i luoghi turistici, così riesco a salire le scale di case popolari e avere i primi contatti con la gente. Per 15 giorni proverò a capire questo popolo. Vedo nei loro occhi la tristezza per la morte di Fidel e per il tempo sospeso che avvolge l’isola da 58 anni.
L’isola e le sbarre
Strade larghe e palazzi liberty, come una scenografia, fanno da sfondo alla vita degli abitanti della capitale. Si vede che questa città ha una concezione americana, se chiudete gli occhi potete immaginare Al Capone che sulla sua Cadillac vi impedisce di attraversare le strisce pedonali. Dai palazzi liberty con i muri scrostati e dalle finestre rotte, potete ancora immaginare di ascoltare le risate dei signori americani che giocano d’azzardo o si approfittano, con il loro denaro, di giovani donne cubane dalla pelle color miele. Le passeggiate sul Malecon al tramonto, un’ampia arteria a 6 corsie situata di fronte al mare, racchiudono qualcosa di poetico e allo stesso tempo malinconico. Quelle onde che s’infrangono sulle sponde di un muretto, che accoglie pescatori e famiglie con bambini, sono più libere di qualsiasi abitante di quest’isola. Dopo i primi giorni comincio a percepire questo senso di isolamento, di confine. Voglio raccontare la povertà e la ricchezza anche se quest’ultima ancora non l’ho respirata. L’idea che mi si palesa nella testa è che quest’isola calda, festosa e magnifica altro non è, per chi ci abita, che una prigione. Inizio anche a notare delle sbarre. Le noto attraverso la fotografia, i primi ritratti che faccio sono tutte persone dietro le sbarre. Tutti poveri e queste sbarre sembrano la metafora della loro condizione. I ritratti decido di farli con una Polaroid che porto nello zaino. Con questo mezzo entro più a contatto, prima di scattare gli spiego che cos’è e i più anziani mi dicono: «Erano anni che non ne vedevo più una!». Scatto, li faccio sorridere. Ne faccio sempre due, una la regalo, io porto a casa un ricordo per me e mi pare giusto lasciare qualcosa anche a loro. Poi per un fotografo cercare un contatto con il soggetto prima di scattare significa portare a casa uno scatto migliore, più “vicino” e più sentito. Dopo la foto saluto, esco di casa e imprimo in digitale l’analogico. Appoggio l’istantanea sul muro della casa. In questo modo creo l’identità fotografica del lavoro. Ho un ritratto firmato perché chiedo sempre di farlo e contestualizzato con il muro della casa del soggetto.
La povertà
A Cuba non si esce dalla povertà a meno che non si infranga la legge. Chi è povero rimane povero, una povertà dignitosa, pulita, accogliente, nessuno muore di fame, ma è comunque povertà. Generazioni su generazioni conoscono solo questo tipo di vita, si è creato un equilibrio sottile e quando non si hanno altri metri di paragone va tutto bene. Da poco tempo Internet è diventato accessibile per i cubani, ora vedono il mondo esterno in un modo che neanche la televisione mostra perché la dittatura fa passare solo le notizie che fanno comodo. Quando dico accessibile, non pensate che sia come da noi, in tasca e a portata di click. No, non è così accessibile. Lo si usa solo nei parchi pubblici tramite una tessera al costo di due euro per un’ora quando uno stipendio medio è di 50. «Ci piacerebbe cambiasse qualcosa, soprattutto con la privatizzazione, però, non troppo». In questa frase non mi risuona niente di sbagliato. Se cambiasse tutto radicalmente, farebbero la fine degli abitanti di Berlino Est che, da un giorno all’altro, si sono trovati senza neanche quel minimo di cibo necessario per nutrirsi che gli veniva concesso gratuitamente. Per far sì che cambi, prima di tutto bisogna creare posti di lavoro e insegnare dei mestieri. È una necessità primaria, la maggior parte delle persone sono disoccupate e a L’Avana l’occupazione principale è legata al turismo. Autisti, camerieri, baristi, altro non c’è. La classe più povera mi parla anche di quella parte di popolazione corrotta o che lavora per lo Stato. Una delle principali attività illecite consiste nell’andare all’estero, Messico principalmente, per acquistare scarpe, prodotti per il corpo, vestiti, condizionatori, materiale di carpenteria da nascondere in valigia, per poi rivenderlo al mercato nero. Moltissimi lo fanno, per un cubano è pericoloso anche fare l’autista. Pochissimi sono in regola. Una volta la mia fixer mi ha detto che «il cubano vive nella paura, ma lo facciamo, rischiamo, non abbiamo niente da perdere».
La ricchezza
Continuo a passeggiare per le strade de L’Avana e osservo delle persone benestanti. «Ma dove vivono?», mi chiedo. Mi armo di coraggio e comincio la mia ricerca. Mi dicono che il quartiere si chiama Miramar. Mi avvio. Qui non è possibile fare dei ritratti, non incontro nessuno per le strade. Cammino da sola. Vedo solo ville. Fotografo la prima, non la vedo chiaramente, è nascosta da una vegetazione fittissima. Sono tutte così. Mi fermo, sorrido e penso: allora sono imprigionati anche loro e non in un’isola ma in una villa con giardino.
Così è nato il progetto fotografico Fronteras, parlando con la gente, mangiando insieme, ridendo, scherzando, respirando i loro profumi, scottandomi con il loro sole in un’isola fantastica dove il tempo si è fermato. Io parlo di povertà e di una ricchezza che in realtà non è altro che aridità e isolamento. Io nei poveri ho visto l’amore per la loro isola e per il loro sole. Ai ricchi non rimane che un pezzo d’erba tagliato a dovere. Chi è il più povero?