Confidenze a un elefante

Cos’ha in comune il nuovo romanzo della scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego col celebre Elefantino di piazza della Minerva a Roma?
Elefantino del Bernini in piazza della Minerva a Roma. Foto di Livioandronico2013

Dal 1667 piazza della Minerva, a due passi dal Pantheon, è caratterizzata da uno dei monumenti più popolari e originali della Roma barocca: un elefantino in marmo bianco di Carrara che sul dorso coperto da una ricca gualdrappa reca un piccolo obelisco in granito rosa proveniente dall’Iseo Campense, ovvero la zona dall’antica Roma consacrata ai culti egizi. Sul piedistallo è una epigrafe latina, dove si legge fra l’altro: «Solo una robusta mente può sostenere una solida sapienza». Di qui la scelta dell’elefante, la cui robustezza è fuori discussione, e dell’obelisco quale emblema della proverbiale saggezza d’Egitto.

 

L’opera, che doveva simboleggiare la Divina Sapienza, venne commissionata da papa Alessandro VII a Gian Lorenzo Bernini, che s’ispirò ad un disegno tratto dal romanzo allegorico di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili (1499), ma anche ad un elefante reale, che aveva trovato domicilio nientemeno che in Vaticano e per questo era noto come l’elefante del papa. Ecco la sua storia.

 

Un tempo (ma forse anche ora!), per rendersi importanti o ottenere dei favori, i grandi della Terra usavano scambiarsi cortesie e talvolta doni originali, fatti apposta per stupire il destinatario, il quale però spesso e volentieri non sapeva cosa farsene. Ebbene, agli inizi del XVI secolo dal lontanissimo Pakistan giungevano in dono al re del Portogallo Manoel II due rarità, data l’epoca: un rinoceronte e un elefantino bianco. La notizia di queste meraviglie della natura dilagò in tutta Europa. Non molto tempo dopo il sovrano pensò di rinviare il duplice ingombrante dono al papa Leone X.

 

Mentre però la nave che trasportava il rinoceronte andò a picco insieme allo sfortunato animale, l’elefante giunse sano e salvo a Roma, accolto con tutti gli onori. Era il 12 marzo 1514. Annone – così era stato chiamato il pachiderma, dal nome di uno dei generali di Annibale – era l’attrazione principale di un sontuoso corteo che tra due ali di folla entusiasta giunse fino a Castel Sant’Angelo, dove lo attendeva il papa in persona. Giunto al suo cospetto, l’elefante si inginocchiò per tre volte in segno di omaggio; quindi, a un cenno del suo custode indiano, aspirò l’acqua con la proboscide da un secchio e spruzzò cardinali e quanti gli stavano attorno.

 

Tutta Roma impazzì per Annone, un po’ come avviene oggi con certi divi dello spettacolo: il popolo perché ne ammirava la mansuetudine e l'educazione, la gente colta perché riteneva l’elefante simbolo di pietà, intelligenza ed equilibrio della mente. Lo stesso papa Leone gli si affezionò in maniera incredibile e lo utilizzò in varie feste e processioni, con grande sollazzo di chi osservava che per la prima volta nella storia un “leone” dava ospitalità ad un elefante.

 

Quasi non passava giorno senza che una schiera di curiosi andasse a fargli visita nella grande stalla del Belvedere allestita appositamente per lui, dove era affidato alle cure di un ciambellano pontificio. Manco a dirlo, questa celebrità fu addirittura raffigurata dai maggiori artisti dell’epoca, primo fra tutti Raffaello.

 

Purtroppo, malgrado le attenzioni e le leccornie di cui veniva gratificato (motivo per cui crebbe in larghezza piuttosto che in altezza), Annone cominciò a deperire: meravigliosi i giardini vaticani, ma la nostalgia delle foreste natie si faceva sentire… soprattutto il clima umido della Città Eterna gli doveva essere fatale. Fatto sta che dopo neanche tre anni di soggiorno sotto il bel cielo di Roma il povero elefante morì, con grande rincrescimento del papa (che si dice lo abbia fatto seppellire negli stessi giardini vaticani), ma soprattutto della gente semplice, che lo considerava quasi un portafortuna.

 

Il suo ricordo però non venne meno. Ad immortalare Annone ci pensò il Bernini, attirandosi l’astio dei domenicani della vicina chiesa e convento della Minerva, che avrebbero preferito un monumento guarnito da quattro cani, emblema del loro Ordine.

 

E ai nostri giorni? L’Elefantino della Minerva è diventato il confidente di Adua, protagonista dell’omonimo romanzo di Igiaba Scego, la scrittrice italiana di origini somale già nota per romanzi come Oltre Babilonia, La mia casa è dove sono, Roma negata.

 

In questo nuovo testo edito da Giunti, Adua è una donna matura che vive a Roma da quando aveva diciassette anni: una dei tanti immigrati giunti in Italia durante la diaspora somala degli anni Settanta, che ha sposato un giovane connazionale in cerca di asilo politico col quale intrattiene un rapporto ambiguo, complicato.

 

Dopo la partenza dell’amica Lul, che ha deciso di ritornare in Somalia, Adua si ritrova sola e confusa davanti ad un bivio: da una parte vorrebbe rivedere lei pure la patria comune lasciata allo scoppio della guerra civile, per riprendere così possesso di “Due Pietre”, la casa di famiglia della sua giovinezza; dall’altra le rincresce lasciare la Roma nella quale ha trascorso la maggior parte della sua esistenza, città che adora.

 

Per cercare sollievo ai propri tormenti, si confida con l’Elefantino di piazza della Minerva e racconta all’amico di marmo la sua storia, che s’intreccia con quella del padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, che durante il regime fascista ha lavorato come interprete barattando, sia pure involontariamente, la propria libertà con quella del suo popolo.

 

Per fuggire dai rigori paterni e dalla dittatura comunista, Adua lascia Magalo, la città somala dove s’è trasferita dopo un’infanzia nel villaggio natio, e approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema. Ma quello che in definitiva è un sogno di libertà si rivela una “discesa agli inferi”: l’unico film che riesce a interpretare è una pellicola porno, che diventerà fonte solo di umiliazione e vergogna.

 

Solo adesso che il maritino salvato dall’alcol e accolto nella propria casa sta per separarsi definitivamente da lei, l’ormai sfiorita Adua si rende conto di essere pronta a riprendere in mano la sua vita.

 

Romanzo a due voci – quello di un padre e di una figlia che ha sempre avuto con lui un rapporto estremamente conflittuale –, Adua intreccia «tre momenti storici: il colonialismo italiano, la Somalia degli anni Settanta e la nostra attualità, che vede il Mediterraneo trasformato in una tomba a cielo aperto per i migranti». Servendosi di un linguaggio scarno e di rappresentazioni talvolta crude, ma appropriate alle vicissitudini di chi deve reinventarsi la vita in un altrove che pure finisce per amare. Nel ringraziare quanti hanno collaborato alla nascita di questo libro dall’anima molteplice, conclude la Scego: «Un grazie enorme alla mia Roma, musa e fonte costante di ispirazione. Poi sì, vorrei ringraziare Bernini. Senza di lui Adua non avrebbe trovato un elefante dalle grandi orecchie a cui raccontare la sua storia».

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