Condividere il dolore a Gerusalemme
Aveva molto insistito il sindaco di Betlemme, Vera Baboun, che, come rappresentante delle Regione Toscana, andassi a Ramallah per il convegno di solidarietà della cooperazione europea con la Palestina del 21 e 22 novembre.
Avevo visto il sindaco questa estate, nei giorni della terza guerra di Gaza. Poi c’eravamo di nuovo incontrati a San Rossore (Pi), durante il nostro meeting dei giovani del mediterraneo.
Nei giorni della guerra di Gaza, durante la mia permanenza a Gerusalemme, ero andato a visitare il padre del giovane palestinese bruciato vivo da fanatici israeliani, dopo il sequestro e l’uccisione dei tre ragazzi ebrei che studiavano in una scuola rabbinica verso Hebron. Il padre mi aveva raccontato la bellezza e la dignità di suo figlio.
Avevo chiesto alla nostra ambasciata di creare le condizioni per una visita alle famiglie dei ragazzi, ma per questioni tecniche non fu possibile.
In partenza per Gerusalemme, arriva la notizia della strage dei rabbini, compiuta nel sobborgo di Har Nof, su Agasi street. Per un attimo, con la delegazione della Toscana, abbiamo valutato di non andare. Ma poi abbiamo deciso di partire, perché l’intercessione, lo stare in mezzo, che è poi il senso profondo della nostra cooperazione, non poteva essere sospeso, tanto meno rinviato. Più che mai andava confermato e realizzato.
La nostra preoccupazione era che il radicalizzarsi della situazione avrebbe accresciuto gli ostacoli e resi complicati gli spostamenti, fino a renderli impossibili. Nei fatti niente di tutto questo. Nessun particolare controllo ai chek point. Sia all’arrivo a Gerusalemme sia poi in tutti gli incontri e viaggi successivi. Nessuna particolare difficoltà.
In questo contesto ho chiesto alla nostra ambasciata a Tel Aviv, se fosse possibile andare a visitare le famiglie dei rabbini uccisi. L’ambasciata ha mostrato molta attenzione e sensibilità. Mi hanno offerto la possibilità di partecipare alla visita alla sinagoga di una nostra delegazione governativa, ma ho preferito l’incontro con le famiglie, un incontro semplice con le vittime di questa strage terribile.
L’ambasciata mi ha messo in contatto con un ebreo italiano, che aveva vissuto tra l’altro qualche anno a Firenze. Con lui e con suo padre sono andato il pomeriggio del 20 dalle 16 alle 17,30. Siamo arrivati all’inizio di Agasi street. Sulla sinistra c’era la sinagoga e diverse persone che vi lavoravano per renderla di nuovo accessibile dopo la devastazione della tragica mattina del 18 novembre.
Poco prima delle sette, 40 persone che pregavano erano state sorpresi dalla violenza feroce di due giovani palestinesi trentenni, uno dei quali era uscito dal carcere nello scambio della liberazione del soldato Shalit.
Sono state uccise quattro persone a colpi di pistola, oltre 40, e a colpi di accetta. E all’arrivo della polizia sono stati uccisi i due palestinesi e un poliziotto. Non è la prima volta che viene violato un luogo religioso. David Grossmann ha ricordato che nel febbraio 1994 un israeliano fanatico ha ucciso 28 fedeli musulmani alla moschea di Hebron, dove sono custodite le tombe dei patriarchi e dove nello stesso luogo coabitano la moschea e la sinagoga.
La prima cosa che mi sorprende, arrivando in quella strada, è l’assenza di ogni tipo di sicurezza visibile: nessun soldato, nessuna guardia, nessun vigile, nessun poliziotto, almeno riconoscibile come tale. Erano passate meno di 48 ore dal massacro.
Ovviamente nessuno conosceva né me né chi mi accompagnava, ma nessuno mi ha fermato nel mio andare verso la casa della famiglia del rabbino, ucciso a 60 anni. Un appartamento semplice, modesto, come tanti. Sono entrato nella casa all’ora del tramonto. Arrivo a portare le condoglianze alla persona del figlio del rabbino ucciso, che, secondo il rito, ha la camicia tagliata a indicare il lutto e la parentela stretta con l’ucciso.
Il figlio del rabbino ucciso ha 38 anni. Mi presento, racconto la mia cooperazione con i palestinesi e soprattutto gli dico perché sono lì: perché il suo dolore è anche il mio dolore, perché il dolore delle vittime è universale e tocca tutti ed è il dolore del mondo, che tutti sono chiamati a portare.
Il figlio del rabbino si commuove. Quando esco con l’amico ebreo, che mi aveva accompagnato e che mi aveva fatto da traduttore, una persona ci segue e ci ringrazia in modo non formale. Sono stupiti che una persona nelle mie condizioni di disabile sia venuto a partecipare al loro dolore, abbia rotto il muro del pregiudizio e dell’isolamento.
Io sono rimasto molto colpito dalla compostezza del loro dolore, senza vendetta, senza violenza, senza bisogno di gridare un odio represso. Anche la preghiera, a cui partecipo subito dopo andando nel condominio dove abitava un altro rabbino ucciso, avviene secondo questo stile di mitezza. I volti dei ragazzi e degli adulti sono provati, ma non cercano né rappresaglia, né guerra. Verrebbe da dire che sono volti di consegnati al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nessuno mi chiede niente, ma sono semplicemente accolto nella loro preghiera, perché Dio accoglie tutti. Gli occhi di tutti sono segnati da un velo di mitezza e di obbedienza, che lascia sbalorditi.
Il giorno dopo, portando questa visita preziosissima nel cuore, sono andato a Ramallah al convegno di solidarietà della cooperazione europea alla causa palestinese. Ho ascoltato Abu Abbas, presidente della ANP, dire parole forti, ferme e secondo verità contro l’uccisione dei civili, contro l’uccisione degli innocenti, contro la violenza. Allo stesso modo aveva parlato il giorno prima il sindaco di Betlemme.
Ho pensato che il centro congressi di Ramallah, dove parlava Abu Abbas, il comune di Betlemme e quegli appartamenti di Agasi streat, accanto alla sinagoga, erano meno lontani di quanto la retorica e la pigra politica vorrebbero. Le vittime tessono instancabilmente il filo d’oro della pace.