Concerti romani
Cavea colma e silenziosissima – un miracolo nel caldo torrido – per la Messa di Requiem di Verdi (1874), bella fino allo stordimento, drammatica come un lavoro scespiriano, e tenerissima allo stesso tempo.
Verdi parla da uomo a Dio – che non sa se c’è- davanti al fatto del dolore e della morte. Inizia sommesso, implorante pace e perdono, poi esplode in un terrificante Dies irae, ma lo frammenta in oasi dolcissime, si direbbe mistiche (“Inter oves”, “Hostias”) inframmezzate nel Lacrimosa ad una marcia funebre dell’intera umanità davanti alla fine della vita. Intanto, anche supplica, piange, si ribella e chiude con il Libera me angosciante però concluso con una attesa lunga, distesa.
Capolavoro di religiosità laica è stato definito, ma forse è opportuno dire di religiosità e basta, tanto la dimensione spirituale, metafisica è cercata, implorata, attesa, pur nel dubbio. Verdi eredita la liturgia cattolica incentrata su un Dio giudice eppure aperta a quel pianto, a quella misericordia che è parte integrante del suo mondo sentimentale.
Lo straordinario del concerto è stata la presenza dei giovani dell’Orchestra dei Conservatori, attentissimi, bravissimi, diretti dal ventottenne veronese Alessandro Bonato, colto e dotato, dal gesto talora toscaniniano, attento alle sfumature e ai tempi indugianti, necessari in questa musica epica. Insieme al coro ceciliano, c’erano i quattro giovani e promettenti solisti: il soprano Chiara Isotton, voce limpida, il mezzosoprano Irene Savignano, il tenore squillante Vasyl Solodkyy e il basso cinese HuanHong Li.
Come dicevamo, silenzio totale del pubblico: la musica ci rende più umani anche in questo aspetto.
Per la rassegna l’Orecchio di Giano diretta da un musicista multiforme come Flavio Codusso le volte di Villa Giulia hanno visto la presenza della musica di Franz Schubert, anno il 1828, quello che a soli 31 anni si è portato via il giovane genio.
Il basso finlandese Erik Rousi, accompagnato dal pianista Justas Stasevskij ha eseguito i 13 Lieder “Schwanengesang D 957” composti appunto a pochi mesi dalla morte di Franz. Se una prima parte è dolce e fresca con immagini della natura, sole e notte, ruscelli e desiderio di amore di un’anima sognante, nella seconda il romanticismo malinconico, quasi presago della fine, si fa strada nelle melodie così belle, e luminose di Schubert ma con quella sommessa tristezza, quel vago senso misterioso che getta una luce su una sensibilità fresca, ingenua ma anche tormentata. Senza i furori di Beethoven ma non meno profonda.
Il canto del basso finlandese è stupendo: voce profondissima e vellutata, sale in alto e in basso facilmente, è melodiosa: sarebbe bello ascoltarlo da noi in Verdi. Chissà. Intanto abbiamo gustato con lui il romanticismo chiaro e inquieto di Franz Schubert.