Cona. È un “affare” di umanità
Bisogna ammetterlo: andare in visita al Centro di accoglienza di Cona a mente sgombra di idee precostituite non è facile. Dopo la morte di Sandrine Bakayoko, le manifestazioni di protesta sia da parte degli ospiti che dei residenti, le vicende giudiziarie in cui è coinvolta la cooperativa Ecofficina, le accuse di fare business sull’accoglienza e avere legami poco trasparenti con i “centri del potere”, il confine tra il tener conto di quanto accaduto e il pregiudizio diventa sottile. Però tenere il giusto equilibrio è uno sforzo doveroso, nella misura in cui la visita di persona ha il senso di andare oltre ciò che si è sentito e letto. Ad accogliermi, al mio arrivo, sono l’amministratore delegato della cooperativa, Sara Felpati, e il marito e “factotum” Simone Borile. Su tutta l’area, che la pioggia ha trasformato in una distesa di fango, sono disposti numerosi tendoni bianchi e container. Iniziamo la visita dal tendone mensa, dove hanno pranzato oltre 1200 persone. Alcuni ospiti stanno finendo di pulire i pavimenti; e tenendo conto del fango che chi entra porta inevitabilmente con sé, i risultati sono apprezzabili. Anche i tavoli – con copertura bianca: non c’è storia, le macchie si vedono – appaiono lindi.
Uno schermo che trasmette una partita: c’è la Coppa d’Africa, che funziona da aggregatore sociale più di tante altre iniziative. Lungo un lato si sta formando una fila ordinata per la distribuzione del pocket money, la quota di 2,50 euro al giorno che spetta a ciascun richiedente asilo, consegnata cumulativamente ogni due settimane.
Mi siedo a un tavolo con Simone, che inizia a raccontare la storia del centro. «Siamo partiti a luglio 2015 con 70 persone. Progressivamente la struttura si è riempita, in mancanza di un sistema di accoglienza diffusa: così ad aprile 2016 la prefettura ha aperto un bando non più per un centro di accoglienza ma per un hub, con capienza prevista di 540 persone». Un numero che è lievitato fino a 1540 ad ottobre 2016, per attestarsi ora a 1200. «Lascio immaginare che cosa significhi dover provvedere in tempi rapidi a letti, alloggi, vestiario, servizi igienici e medici per mille persone in più». E un numero più elevato di persone non significa automaticamente soldi a palate: «Alla cooperativa arriva quanto previsto dal bando, quindi la quota per 540 ospiti – spiega –. La differenza viene compensata poi, ma con ritardo di mesi: il che significa non solo rimanere esposti finanziariamente verso banche e fornitori, ma anche dover magari concordare un prezzo più alto perché siano disposti ad attendere il pagamento. Attualmente siamo esposti per 5 milioni di euro. È un sistema suicida». Un sistema che prevede che la cooperativa provveda eventualmente a subappaltare, secondo regolare procedimento, i vari servizi e copra, con i noti 32 euro al giorno, tutte le spese. «Comprese quelle mediche – puntualizza –: abbiamo psicologi e medici nelle ore diurne e infermieri h 24, con 120-140 accessi al giorno in infermeria; e i farmaci non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, ma nostro». Senza contare i costi per fognature, impianto elettrico e idrico, non previsti nel contratto. Si fa presto a lanciare strali contro il business dell’accoglienza insomma, secondo Borile; almeno finché non si è provato a gestire 1500 ospiti, 60 dipendenti della cooperativa più quelli delle ditte in subappalto, alcuni volontari, e somme sì ingenti ma spesso “virtuali”.
Intanto è iniziata la distribuzione del tè del pomeriggio. Una foto è la scusa per avvicinare un gruppo di ragazzi pakistani. Il copione pare essere lo stesso per tutti: partenza da casa 3-4 anni fa, sosta in Libia dove hanno trovato lavoro, poi lo sbarco e l’arrivo a Cona. Qui tutti vogliono rimanere in Italia e lavorare, chi non intendeva farlo già ha preso (legalmente o meno) la via del Nord Europa. Mi raggiungono anche Sandra e Vito, due infermieri volontari. «Dopo due anni in Africa, nella cittadella di Fontem – raccontano – ci siamo detti che adesso l’Africa è qui: e così ogni venerdì veniamo in ambulatorio. Siamo felici, impariamo tanto da questi ragazzi».
Ci spostiamo nei container dove si tengono le lezioni di italiano. Marco, insegnante assunto della cooperativa, sta seguendo alcuni ragazzi del Mali. Sono ai primi passi: alcuni faticano a leggere e scrivere, per cui è fondamentale il sostegno dei connazionali che già masticano un po’ di inglese o francese. Tento di scambiare qualche parola in francese con uno di loro, e mi rendo conto che la comunicazione è una bella sfida: che finisce con lui che sfida me a ripetere il suo (complicatissimo) nome, impresa nella quale fallisco miseramente. I container ospitano anche altre attività: educazione civica (le lezioni più seguite, riferiscono gli operatori), educazione sanitaria, laboratori di musica e di artigianato.
Proseguendo, passiamo accanto alle tenda-chiesa e alla tenda- moschea: «Non ci sono mai state tensioni religiose – assicurano alcune operatrici –, però quelle etniche sono più frequenti. La nostra linea è quella di favorire l’integrazione, creando gruppi misti per quanto possibile».
Arriviamo ai dormitori: tendoni di 500 m2, riscaldati, con un blocco di servizi, dove dormono 140 persone. Delle coperte appese tra i letti a castello garantiscono un po’ di privacy. Qui incontro persone da Guinea Bissau, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, che portano avanti i loro hobby e professioni: c’è addirittura un sarto che, oltre a cucire tuniche sgargianti, ha anche allievi attorno a sé che imparano il mestiere. Poco più in là, un parrucchiere fa barba e capelli ai compagni. Dormire qui non dev’essere semplice, e chiedo a qualcuno di loro come si trova. Tutti fanno spallucce: non è male, abbiamo passato di peggio. Per il futuro, tuttavia, non si intravvedono grandi cambiamenti: «I bandi vengono rinnovati ogni 3 mesi, e quello attuale scade il 31 marzo – riferisce Borile –. Non è ancora stato aperto il nuovo bando, per cui probabilmente ci sarà una proroga: del resto, trattandosi di servizi alla persona, anche dal punto di vista legale non possiamo tirarci indietro». Il sole sta calando. Qualcuno si dedica a qualche piccolo lavoretto manuale, altri improvvisano due calci al pallone nonostante il fango. Esco dalla base con più domande di quante ne avessi quando sono entrata: è questa l’unica certezza che mi porto a casa.