Con parole loro
Mario Urbinati è sociologo e coordina i volontari dell’area ascolto-accoglienza presso la Caritas diocesana di Roma. Coautore con Stefano Pelilli di Con parole loro, una ricerca sugli immigrati della capitale, è andato a cercarli nei luoghi di fortuna (sottopassi della tangenziale, nicchie, porticati), dove abitano a volte interi nuclei familiari (come a Spinaceto) e addirittura comunità etniche organizzate (i bulgari alla Caffarella). Come pure nei luoghi di ritrovo auto-organizzati, dove si riproducono riti e si ripropone la cultura d’origine attraverso la preparazione e la consumazione dei cibi tradizionali, l’organizzazione di feste, l’attivazione di corsi di lingua per i figli (magari nati in Italia). Seguiamo Mario durante alcune sue interviste sul campo, ascoltando situazioni complesse, contraddittorie ma anche straordinarie nella loro freschezza e generosità espositiva. Appuntamento alle ore 07.00 a piazza dei Navigatori. Pavel mi aspetta alla fermata del 761, ci prendiamo un caffè e poi insieme ci incamminiamo verso la scuola occupata, un vecchio istituto tecnico pericolante, perimetrato da bandoni di ferro e dunque residenza protetta da occhi indiscreti perché di fatto chiusa al pubblico ed impenetrabile alla curiosità degli altri. Entriamo da un lato, c’è un bandone amovibile, percorriamo il cortile interno e attraverso il giardino (originariamente un’aiuola dove ora c’è traccia d’erba tra materiali di risulta) passiamo il corridoio velocemente; è il piano degli italiani… ci hanno concesso di passare meglio fare presto. In effetti sono quelli meglio piazzati, probabilmente sono arrivati prima nello stabile e un po’ si fanno forti della loro condizione di nativi. Ad un certo punto, il corridoio termina con una porta sospesa a due metri da terra. Pavel prende una scala mimetizzata tra alcune pertiche di legno e mi dice: Saliamo, Tania ci spetta… poi lei deve andare a servizio. Entrando, si apre ai miei occhi un’aula con la lavagna ancora alle pareti e delle porte coricate su quattro cassette di birra. Questi sono i loro letti. Mentre Pavel mi prepara un caffè, la moglie va a preparasi nel bagno dell’ex liceo. Mi guardo attorno e capisco che noi siamo entrati dalla finestra perché le porte situate dalla parte opposta sono murate. Il piano di Pavel è abitato da molti immigrati persone dell’Europa dell’Est, per lo più moldavi. Hanno trasformato al meglio un edificio pubblico (destinato chissà per quanto a restare nel limbo degli edifici pericolanti ma non pericolosi, tanto da poter rimanere in piedi senza essere abbattuti), hanno realizzato stanze nelle aule, dividendole in moduli abitativi funzionali (i gabinetti di chimica fungono da alternativi punti di cottura), zona giorno, zona notte, e gli appendi-abiti sono ora dei guardaroba a vista. Hanno accettato la loro condizione precaria come condizione stabile; a noi le case non ce le affittano. Fa pensare tutto ciò. Insomma, un valido compromesso tra l’esigenza abitativa dei migranti e l’assenza di soluzioni abitative e di proposte istituzionali. Roma è piena di questi luoghi: fabbriche abbandonate, scuole in disuso, casali semidistrutti. Col l’integrazione nel rispetto delle diversità e delle gerarchie che si formano tra i diversi gruppi etnici: ad ogni etnia il suo piano! Colpisce la sua dislocazione geografica che rende animati territori prima inesistenti. Eppure l’esperienza del progetto Arcata Luigi di Liegro non è così lontana… Altro che recupero urbano con griffe di grandi nomi di architetti, queste persone hanno reso dignitosi dei luoghi abbandonati per farli diventare le loro dimore. Queste persone silenziose… Appuntamento a piazza Zama, Antonov e Diana vengono a prendermi al capolinea del… percorriamo il sentiero accanto alla ferrovia e poi ci troviamo in piena campagna nel parco della Caffarella. Chiedo ai giovani se è uno scherzo… e sono anche un po’ preoccupato, ma confido anche nella presenza di lei, una ragazza molto dolce e mamma di una bambina di quattro anni che vive a Sofia con la nonna. Speriamo bene! Dopo un po’ di cammino incontriamo una vecchia catapecchia, una baracca con le mura in tufo ed il tetto in legno: esce di lì un uomo tarchiato, il padre di lei, dai chiari tratti slavi; mi saluta e si unisce a noi. Avanziamo alle spalle di un canneto e dietro questo si staglia una piccola baraccopoli ben nascosta. Un insediamento abitativo in un parco pubblico, mascherato dalla vegetazione incolta e dal diverso livello stradale. Mi appare una sequenza di immagini che prima avevo visto al cinema o nelle riviste dei padri dehoniani; la povertà è visibile ovunque nei vestiti della gente che incontro, negli oggetti che vedo intorno e all’interno dalle baracche; diverso il formato delle abitazioni, la composizione e l’arredo degli interni, la quantità di cibo – mi racconta Vassilena – che distingue l’indigenza dal benessere relativo. La baracca di Volodie e Vassilena è arredata di tutto punto: s’intende, mobilio rimediato nelle discariche o dai robivecchi. Entro, il mobile soggiorno divide la casa e funge da muro maestro, sostiene il tetto e realizza il colmo. Mi accomodo sul divano, mi invade un odore di muffa e panni bagnati e aroma di caffè. Loro sono due ragazzi giovani, belli; lei ha lineamenti soavi. Uscire al vento sola e libera con i capelli bagnati…, come spesso ama dire, è per lei una soddisfazione, una piccola libertà tra gli sguardi attirati dei passanti e le invettive feroci di chi abita nell’isolato di fronte alla baraccopoli. Quando parlano della loro vita alternano momenti di allegria. Vassilena sbotta in fragorose risate quando parla della sua capacità di cucinare e poi diventano subito melanconici quando si parla della realtà. Nelle loro parole emerge quasi spontanea l’idea di normalità : Qui ci siamo sistemati… e allora presto chiameremo la nostra bambina. Non si tratta di una frase occasionale, l’ho sentita più volte da diversi immigrati, quando presentano come loro abitazione anche una spelonca: è lo stato di bisogno che li porta a dire che la propria condizione logistica – precaria, provvisoria e inumana – e rappresenti una sistemazione vantaggiosa che consente di chiamare la propria famiglia per un ricongiungimento de facto in Italia. E su queste premesse di grande fragilità continuano ad investire per migliorare la propria abitazione con continue modifiche interne degli spazi. Passeggiando nella via adiacente al di là del canneto si possono confrontare due realtà diverse: quella che si è lasciati alle spalle e le palazzine in cortina ove si intravedono attici opportunamente adornati con piante rampicanti. La realtà della baraccopoli non è paragonabile all’ultima delle periferie romane. Si tratta di favelas non molto diverse da quelle che siamo abituati a vedere nei reportage sull’America latina. Le foto che ho scattato non rappresentano forse un adeguato livello di narrazione visiva. Ci vorrebbero occhi più penetranti e profondi. Come per Moustafà, che abita in un pertugio della tangenziale; o per Tarek, che vive nelle automobili. Ero rimasto colpito da quanto Tarek aveva detto di Roma, una metropoli che non conosce se stessa. Oltre il proprio quartiere di residenza, la gente non guarda, non vuole vedere questi posti…! Siamo distratti o indifferenti? Mi son trovato a fare i conti con la realtà così come non l’ha mai descritta nessuno, e la gente che lì vive vorrebbe portarci dove non vorremmo, impreparati ad affrontare un mondo di cui non vogliamo essere testimoni. Il permesso di soggiorno, Roman lo vede nei suoi sogni come una chiave che apre la porta d’ingresso della società. Io sogno spesso una chiave… mi aspetto che mi consegnino non quel foglio, ma una chiave e io con quella posso fare tutto… ogni cosa ha bisogno del permesso: una occupazione regolare, l’affitto di una abitazione, l’acquisto di una vettura usata, il medico di base, la patente auto… e anche l’affetto di una ragazza (lei chiede: ma tu sei senza permesso?…). Ricordo che ogni discorso affrontato portava lì… più che un progetto, un’ossessione, una ricerca spasmodica non di un posto al sole o chissacché (come purtroppo si pensa degli immigrati nell’immaginario collettivo), ma semplici strumenti che portino ad una condizione di vita normale. Talvolta, le capacità personali si incontrano con le opportunità e diventano progetto di vita e prospettive di futuro per sé, per la propria famiglia, per i figli. Basta sia presente una casa o un’idea di abitazione, un tetto sotto cui ritrovarsi per ripartire di nuovo. Chi non ha una casa non ha neanche una storia. Questo era lo slogan di un progetto Caritas coordinato da Roberta Molina e da Gennaro Di Cicco, alcuni mesi fa. L’osservazione è quanto mai vera ed emerge chiaramente dalle ricerche sul campo e dalla analisi dei dati. Dovremmo dare una apertura di credito maggiore a chi è in difficoltà, dare opportunità che non si basino solo su norme astratte. A Roman, pur se dopo molto tempo, il permesso di soggiorno è arrivato. Ha così potuto prendere avvio una nuova storia di vita.