Con la sabbia negli occhi

Il 15 dicembre del 1995 un Cessna in partenza da Agadez e diretto a Niamey (Niger) esplodeva ancora sulla pista di decollo. Su quel velivolo (con ogni probabilità sabotato) perdeva tragicamente la vita Mano Dayak, figura quanto mai rappresentativa del popolo tuareg. Uno che, dopo la rivolta degli anni Novanta, aveva cercato di portare all’attenzione internazionale le condizioni critiche delle popolazioni nomadi del Sahara, vittime di soprusi da parte dei governi del Niger e del Mali. Solo un’azione concorde delle diverse tribù tuareg avrebbe potuto ottenere il riconoscimento dei loro diritti ed una maggiore autonomia dei loro territori, fatti oggetto di interessi internazionali a motivo delle risorse minerarie. Purtroppo esse erano divise e non tutte si riconoscevano nell’operato di Mano Dayak, secondo alcuni troppo legato alla guerriglia. Sarai tu a trovare la sorgente dei tuareg gli aveva detto il vecchio e saggio amico Ebayghar, significando con ciò la rinascita di questo popolo del deserto minacciato nella sua stessa sopravvivenza. Ma proprio nel momento più cruciale del suo ruolo di mediatore tra il governo nigerino e la guerriglia, qualcuno aveva fermato l’estrema missione di pace di quest’uomo del dialogo, amato e al tempo stesso odiato da molti. Ripercorriamone la vicenda. Mano Dayak nasce nel 1950, settimo figlio di una famiglia tuareg originaria dell’Aïr. A nove anni viene strappato dal suo accampamento di Tidène e costretto a imparare in una scuola coloniale una cultura che non gli appartiene, quella francese. Molto dotato, viene consigliato di proseguire gli studi. Dopo il servizio militare, emigra in Francia, Stati Uniti e ancora in Francia, dove completerà gli studi universitari. Intanto intesse relazioni con gente comune ed esponenti politici che lo sosterranno nella sua lotta in difesa dei tuareg, e conosce Odile, la sua futura moglie da cui avrà due figli. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta porta all’attenzione dei Paesi occidentali il dramma del suo popolo, fondando associazioni, interessando i media, creando un’agenzia di viaggi in Niger e sostenendo il rally Parigi-Dakar, cui partecipano uomini e donne che egli appassiona alla sua causa. Tornato in Niger nel 1990, fonda insieme ad alcuni amici il partito Udps, con l’obiettivo di una difficile mediazione tra i ribelli del Fronte di Liberazione e il governo di Niamey. Dopo anni di sterili negoziati, decide di avvicinarsi alla guerriglia, e con un instancabile lavoro porta la Resistenza Armata alla firma degli accordi di Ouagadougou (aprile 1995). Una grande speranza per la pace in Niger, che purtroppo questo grande leader, troppo scomodo per chi aveva altri piani per il deserto dei tuareg, non potrà vedere. Col suo sacrificio, tuttavia,Mano Dayak ha contribuito a dare risonanza mondiale a questo popolo nomade ferito nella sua di- gnità e ridotto quasi senza risorse e speranze. Se oggi la cultura tuareg è più conosciuta, lo si deve soprattutto a lui. E non manca chi porta avanti i suoi ideali operando nell’Aïr con progetti di sviluppo nel campo della scolarizzazione, dell’allevamento e dell’artigianato: da Touaregs, l’associazione francese da lui stesso fondata nel 1922, a varie organizzazioni di altri Paesi, tra cui l’Italia (vedi box). A mantenere viva la memoria di Mano Dayak – al cui nome è stato intitolato nel 2003 il nuovo aeroporto di Agadez – ha contribuito anche il successo mondiale dei suoi libri, tradotti in Italia dalla Emi: l’intensa autobiografia Sono nato con la sabbia negli occhi e il saggio storico Tuareg, il popolo del deserto, dai toni pacati e al tempo stesso vibranti. Due testi che vale la pena conoscere non solo per la loro bellezza anche letteraria, ma perché si tratta delle prime testimonianze scritte di un popolo che da millenni ha conosciuto soltanto la tradizione orale. E ciò perché Mano Dayak ha saputo far tesoro degli strumenti forniti da una cultura diversa, di cui pure sapeva riconoscere e apprezzare le ricchezze. Uomo in bilico fra due culture, è diventato più di altri atto a fare da ponte in un momento storico cruciale della sua gente. E se lungo il suo difficile percorso in quel mondo occidentale Mano Dayak ha conosciuto sovente un deserto d’altro genere, di valori e di rapporti, è anche vero che vi ha trovato amici che hanno condiviso le sue istanze e l’amore per il popolo tuareg. A conferma che non vi sono abissi culturali tali da non poter essere superati. IL CALVARIO DI UN POPOLO Sono circa un milione i tuareg, di cui quasi 800 mila in Mali e in Niger: Paesi nei quali, per anni, hanno subìto una grande ondata di repressione e di brutalità a causa della loro irriducibile diversità, per non aver rispettato le frontiere imposte dai colonizzatori e per essersi ribellati a una politica di emarginazione e di assimilazione forzata. Scrive Carla Papucci Barburini nella presentazione a Tuareg, il popolo del deserto: Attualmente la pace è tornata nel nord del Mali e del Niger, ma la mancanza di strutture, di servizi e l’isolamento frenano ogni valida iniziativa di autosviluppo dei tuareg. Il decentramento amministrativo che essi sognavano è stato in parte raggiunto. Ci sono state libere elezioni che a livello locale hanno visto l’elezione di un discreto numero di rappresentanti tuareg. Ancora oggi però mancano le risorse economiche e finanziarie per mettere in pratica una reale autonomia. Derubati della libertà proprio loro che si definiscono Imohar (uomini liberi), i tuareg dipendono oggi dagli aiuti internazionali che, se pur tardivamente, stanno in parte soccorrendo le popolazioni saheliane. Dall’Italia sono impegnati in vari interventi il Ce.Vi (www.cevi.coop) e Bambini nel Deserto (www.bambinineldeserto. org): la Ong di Udine sta realizzando un complesso di strutture scolastiche presso Kidal (Nord del Mali); e la Onlus di Modena, a sua volta, una scuola a Tewar (sulle montagne dell’Aïr) nonché un progetto a favore dei bambini di Tindawene, 40 chilometri a est di Agadez Il ricavato dalla vendita dei libri di Mano Dayak sarà destinato a sostenere queste ed altre iniziative di sviluppo di entrambe le organizzazioni. ALLA SCUOLA DEL DESERTO Io devo tutto alle lezioni di mia madre. È lei che mi ha insegnato a smontare e a rimontare la tenda, a piegare e dispiegare il letto intagliato nella torcha, un albero dal tronco grosso, ma da legno tenero e leggero. È lei che mi ha fatto scoprire le stelle che annunciano i cambiamenti di stagione. È lei che mi ha rivelato le diverse caste della gente della mia tribù, gli Iforas. È lei che mi ha insegnato la lettura, il canto, la poesia. È lei che… Non c’è tuareg che non pensi a elogiare sua madre. Ella è l’anima e il cuore del deserto. Fa i lavori più pesanti quando gli uomini partono in carovana. Si occupa degli animali, pesta il miglio, s’incarica di attingere l’acqua, abbevera gli animali, si fa carico dell’educazione dei figli. È allegra e felice. La sera canta, danza, recita dei poemi e dall’imzad, violino a una corda, ricava delle melodie che, durante le veglie notturne, calmano o esaltano le donne e gli uomini. Mio padre non poteva essere che un eroe. Osservavo ogni suo gesto, il modo che aveva di accarezzare il pomo a forma di croce della sua sella di cammello, l’eleganza delle sue mani quando annodava il suo taguelmoust, il turbante che gli formava un’aureola di indaco, il modo con cui portava il cibo alla bocca senza sollevare il velo. Egli si esprimeva con voce uniforme, senza mai lamentarsi, parlava del tempo in cui, grazie ai ricchi pascoli, le famiglie potevano sostare a lungo nello stesso uadi. Quando rievocava questo passato, i suoi occhi riflettevano un bagliore di tristezza subito controllato… Egli era fatto ad immagine del deserto che mi insegnava: sapeva essere allo stesso tempo dolce e austero. Nel deserto la vita è così fragile che bisogna accettare come una fatalità la morte di un essere umano, la malattia che non si può curare, l’incidente di un cammello che uccide, il pozzo prosciugato che rinsecchirà i corpi nel supplizio della sete. Questo fatalismo non è né mancanza di sensibilità né rassegnazione, ma permette di sopportare con dignità le disgrazie quando non si può fare niente per evitarle. Si deve vivere la propria sofferenza in silenzio, a testa alta. Awragh (cammello da soma) si è accasciato nella sabbia. Era arrivato alla fine della sua lunga strada. (…) Senza un grido, la testa eretta, con le lacrime agli occhi, Awragh ha guardato a lungo la carovana allontanarsi, poi raccogliendo le sue ultime forze, ha scavato con le zampe una tomba in cui si è spento tranquillamente. È così che finiscono i cammelli del deserto. Con la loro morte testimoniano che erano degni di vivere. (Da: Sono nato con la sabbia negli occhi)

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