Con Joelle alla scoperta della Gubana

Una giovane di vent'anni recupera la tradizione di un dolce tipico friulano e rilancia l'azienda di famiglia perchè si può fare imprenditoria riscoprendo le arti dolciarie, per ora patrimonio solo degli anziani
La Gubana

Dici gubana, e dici Valli del Natisone: è da quest'angolo di Friuli al confine con la Slovenia, «separato» dal resto della regione non solo dalla viabilità disagevole, ma anche dalla lingua – qui si parla infatti il nediško, un dialetto slavo – che arriva la versione originale di questo dolce tipico. Dico «originale» perché le rielaborazioni sono innumerevoli, e ogni massaia ha la sua ricetta: ma da queste parti sono pronti a giurare che la «vera» gubana è solo la loro.

Semplificando al massimo, possiamo dire che è una pasta dolce lievitata e ripiegata più volte su se stessa – pare infatti che il nome derivi dallo sloveno guba, che significa piega – fino a creare una sorta di «chiocciola», ripiena di pinoli, uvetta, noci, scorza di limone, zucchero e grappa; grappa con la quale la fetta verrà poi bagnata al momento di servirla, almeno per i più coraggiosi. Tutto questo a costo di un lavoro lungo e paziente – era infatti il dolce riservato alle grandi occasioni – fatto rigorosamente a mano: la «vera» gubana è solo quella artigianale, perché a macchina non è possibile riprodurre esattamente lo stesso processo. Certo, sui banchi del supermercato e nei negozi di souvenir ne troverete anche di industriali e più a buon mercato, ma si nota a colpo d'occhio che non è la stessa cosa.

Si potrebbe pensare che siano in pochi e anziani a custodire quest'arte: ma qualche giovane intraprendente non manca. È il caso della ventiduenne Joelle Dorbolò, che già da un paio d'anni si destreggia tra impasti e forni. «Finite le scuole superiori – racconta – non avevo le idee chiare sul mio futuro, e sentivo che l'università non era la mia strada: così mi sono trovata a fare qualcosa che non era nei miei progetti, ossia ad entrare con mia sorella nell'azienda di famiglia». Joelle infatti, a differenza di altri giovani che fanno da soli il salto imprenditoriale, ha avuto la fortuna di essere figlia d'arte: ad iniziare a fare gubane è stata infatti la nonna Antonietta nel secondo dopoguerra, e oggi il marchio Dorbolò è uno dei più conosciuti della zona.

«Ricordo che da piccola sfrecciavo con i pattini nel laboratorio di pasticceria – ricorda -, e ogni tanto mi fermavo a guardare la nonna che impastava o preparava il ripieno. Per cui è stato un po' un ritorno all'infanzia». Il che, comunque, non ha reso la scelta meno scontata: «Certo come a tutti mi sarebbe piaciuto, data la mia età, girare il mondo, cambiare città, magari cogliendo l'occasione degli studi universitari come buona parte dei miei amici faceva. Ma ripeto, onestamente non avrei saputo nemmeno cosa studiare, e sentivo che andarmene senza un progetto sarebbe stato poco più che un capriccio.

Iniziare a gestire un'azienda a 20 anni non me lo sarei mai aspettata, però devo ringraziare la mia famiglia che ha sostenuto sia me che mia sorella, e affrontando il mondo del lavoro già da così giovane sento di aver fatto un passo importante. Anche se, a dire il vero non lo considero proprio un lavoro: siamo noi a gestire il nostro tempo, ci piace fare gubane, e dà molte soddisfazioni far conoscere un prodotto con origini antiche che viene apprezzato. Seguire tutte le fasi della lavorazione e soprattutto il finale, quando le gubane escono dal forno e vengono raffreddate, ripaga di ogni fatica: vorrei mangiare io stessa il dolce da quanta gola fa!».

Stretti parenti delle gubane sono poi gli strucchi, tipico dolce del carnevale, di cui Joelle in particolare segue la lavorazione: sorta di fagottini di pastafrolla con ripieno simile a quelli della gubana, che vengono poi fritti. Joelle nel suo futuro vede l'azienda, e soprattutto la promozione della gubana come mezzo per far conoscere la ricca tradizione di queste valli: «Vorrei portarla dappertutto e a tutti – afferma -, anche se non è facile perché siamo in pochi a farlo. Ma non ci scoraggiamo».

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