Con gli occhi dell’anima
Interessarci all’altro. Credo che sia questo atteggiamento la base fondamentale per noi fotografi, qualunque sia il motivo che ci spinge. Perché, in ogni caso, dobbiamo “uscire” da noi stessi per incontrare la persona, la situazione o la cosa da fotografare. Quanto all’ immagine che ne portiamo a casa – se fedele o distorta,simpatica o antipatica -, dipende unicamente dall’atteggiamento con cui ci poniamo di fronte al soggetto scelto. A ben riflettere, il risultato sulla pellicola o sulla memoria della macchina digitale dipende unicamente da come esso è stato “illuminato”. Un’idea strana? Eppure, etimologicamente, la parola “fotografia” significa “disegno di luce” o “disegnare con la luce”. Protagonista della fotografia sarebbe allora proprio la luce: quella riflessa o assorbita dai corpi, capace di dar vita alle cose. E non mi riferisco solo alla lampada a 3200 gradi Kelvin usata da noi fotografi. Esiste un’altra luce non meno importante per ottenere un buon risultato finale: una “luce” immateriale, per così dire, che noi stessi emaniamo, il modo come noi guardiamo l’oggetto che abbiamo davanti. Il risultato sarà diverso a seconda che quella che illumina il nostro occhio è una luce bianca, la sola che permette all’oggetto di apparire per quello che è; o se invece abbiamo frapposto un filtro di altro colore (preconcetti, paure, rifiuto, desideri di possesso, morbosità ). E qui si potrebbe aprire un grande capitolo, quello della tecnologia di supporto alla fotografia, che in questi ultimi anni ha avuto uno sviluppo straordinario, rischiando di prendere il sopravvento sulla fotografia stessa. Ma non mi addentro in questo vasto argomento. Dico solo che la tecnologia dovrebbe scomparire, essere strumento al servizio di un rapporto. A questo proposito, mi viene in mente Cartier-Bresson, che quando scattava le sue istantanee possedeva una tale tecnica che sembrava quasi dimentico della Leica che aveva tra le mani. Come fotografo, sono cresciuto in un’epoca nella quale è nato il giornalismo fotografico. La rivista Life, al riguardo, era diventata un punto di riferimento imprescindibile per questa professione. E uno slogan era andato diffondendosi: “Una foto dice più di mille parole”. Si scopriva l’universalità di questa nuova arte comunicativa. L’immagine in fondo è come la musica: non ha bisogno di traduzione. Questa è la sua vera forza. Ma dopo l’entusiasmo degli inizi, poco alla volta è venuta imponendosi una domanda: può offrire, la fotografia, un’informazione completa dell’oggetto? Oppure, anche se aperta ad altre dimensioni supplementari, fornirebbe sempre e solo una “copia” di esso? In effetti la nostra è una “civiltà della copia”, come affermava George Steiner.È qualcosa che ho intuito, materialmente direi, grazie al tirocinio fatto al museo nazionale di Berlino, in cui avevo a disposizione il top della tecnologia di allora per fotografare le opere d’arte. E ancor più quando ho avuto occasione di ammirare alcuni dipinti di Vincent Van Gogh: quelle che avevo visto tante volte non erano che riproduzioni, perfette quanto si vuole, ma pur sempre copie. Ed ho capito perché si afferma che il fiammingo è un pittore della luce. Ma l’originale quasi sempre non è disponibile: ed ecco la necessità (e la bellezza) della fotografia, il cui compito allora sarebbe più che altro quello di invitarci ad accostarci all’originale. La passione di un fotografo è di cogliere la verità dell’oggetto da fotografare, ciò che di esso che non muta mai. Non si dice in effetti che scattando una foto si “immortala” qualcuno o qualcosa? Ma allora occorrono “gli occhi dell’anima” (o in altre parole, uno sguardo di amore), per saper cogliere al di là delle apparenze ingannevoli quel nucleo di autenticità. Senza essere invadenti, rispettando totalmente l’altro. Come dimenticare, ad esempio, alcuni reportage fatti in Brasile nelle Filippine? Davanti a certi spettacoli di estrema miseria, proprio per salvaguardare la dignità delle persone, ho rinunciato a fotografarle; in altri casi mi son sentito libero di farlo, ma solo dopo aver stabilito un rapporto di fiducia. In quanto sono io a prendere l’iniziativa della foto, tocca proprio a me portare per primo questo sguardo d’amore sul soggetto scelto. Se poi anche l’altro ricambia allo stesso modo, può nascere qualcosa che mi porta ad attingere la realtà più profonda, quella che spesso non nemmeno visibile all’esterno. Le foto meglio riuscite dei grandi fotografi (ma anche del dilettante) non sono proprio quelle in cui tra fotografo e fotografato è scoccata scintilla dell’intesa, della complicità? Così la foto può essere una sorta di “icona dell’altro”, cioè la rappresentazione della realtà altrui, quella meno ingannatrice possibile. L’autore della Genesi non era certo un fotografo, ma quando scrisse che l’uomo era fatto “ad immagine” di Dio probabilmente indicava anche a professionisti come noi la strada per saper guardare alla realtà.