Con gli occhi dei bambini
Iran, un paese che affonda le sue radici nella giovinezza del mondo: ricco di una cultura che ha visto gli splendori degli imperi persiani, respirato la saggezza di Zarathustra. Poi la storia più recente, la rivoluzione e il governo degli ayatollah. Storia che la maggior parte di noi, da qui, comprende più o meno. Ma chi vuol capire qualcosa della grandezza e tragicità di questa civiltà non dovrebbe perdere l’occasione di vedere i film di Kiarostami. Trascinato dalla sua poesia resterà ammaliato da occhioni neri di bambini che sbucano dovunque, s’interrogano e interrogano; assaporerà il senso di vuoto o di infinito che trasmettono i grandi spazi; si troverà ad attraversare altopiani desertici su strade bianche tra silenziose presenze di ulivi e di betulle e sconcertanti scene di distruzione; si immedesimerà nell’autista che si districa nel traffico di Teheran, guardando dal finestrino le corse dei ragazzini tra i suoi vicoli tortuosi. E allora” potrà cominciare a conoscere qualcosa dell’ira e della speranza, della depressione e della vitalità di una società che vuole trovare un suo nuovo cammino. Fino a pochi anni fa Abbas Kiarostami era un emerito sconosciuto. Ora è quasi un mito. Torino lo ha festeggiato con la manifestazione Sulle strade di Kiarostami (organizzata dal Museo Nazionale del Cinema in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo), presentando l’opera integrale del regista iraniano nei diversi ambiti della sua creatività artistica: dal cinema alla fotografia, dal video alla poesia (vedi il suo nuovo volume di liriche Un lupo in agguato). Nella città della Mole, Kiorastami è stato proposto come un novello artista rinascimentale: un autore totale, capace di esprimersi con mezzi e linguaggi diversi, restando però ogni volta fedele alla sua ispirazione. E a lui, dietro i perenni occhiali scuri, questo accostamento a Leonardo & Company è sembrato piacere molto. L’irruzione di Kiarostami sulla scena internazionale risale al 1989, quando conquista il “Pardo di bronzo” al festival di Locarno. Da allora entra nel pantheon dei grandi cineasti contemporanei. Seguiranno successi su successi, confermando il suo calibro di artista di rara intensità e originalità. Nelle sue opere Kiarostami racconta, con grazia e severità, storie quasi senza trama: storie d’amicizia, d’amore, di solitudine, sospese tra il senso di vuoto, l’ironia e la speranza. Il suo, è un cinema di alta purezza che sa cogliere i gesti più elementari, le sfumature che si nascondono dietro gli eventi quotidiani. La sua poetica è tutta compresa nella ricerca di cogliere la profondità dei sentimenti nei frammenti di vita spicciola, nei piccoli contrattempi del vivere. Un cinema insomma, il suo, che pur tutto intriso di quotidianità sa far sognare; perché, come egli stesso ama sottolineare, “sognare è forse più necessario ed importante che vedere”. Lo spessore dell’arte di Kiarostami sta nella tensione etica che anima il suo desiderio di capire l’uomo. Per questo motivo anche le particolari vicende iraniane che ci mostra, di- ventano storie universali. Come lui dice, “i princìpi base sono ovunque simili; la cosa più importante è comprendere le relazioni umane: i dolori, le gelosie, le paure trascendono la cultura e la religione”. Il suo cinema è segnato dalla più trasparente semplicità. Un po’ anche perché egli da sempre è abituato (e costretto) a lavorare con il minimo dei mezzi disponibili, in un paese pieno di problemi come l’Iran. Egli ingaggia attori non professionisti, in molti casi presi dalla strada, tanto che nelle sue opere spesso troupe e gente del luogo finiscono per mescolarsi, diventando tutti attori che recitano sé stessi. Abbas Kiorastami è diventato regista per caso. Studente non molto brillante, un po’ introverso e solitario, ci mise parecchio a laurearsi. Anche perché per mantenersi doveva lavorare come vigile urbano. Poi” un po’ di lavoro nella grafica pubblicitaria, un po’ come illustratore di libri per bambini. Già, i bambini. Saranno proprio loro che lo porteranno al cinema, come lui stesso racconta: “Sono diventato regista di film per bambini per una banale coincidenza. Un amico mi chiese di entrare all’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti; se avessi invece lavorato in un centro in cui si giravano documentari, sarei diventato un regista di documentari””. I bambini, protagonisti dei suoi film. Troviamo così Ghassem, ragazzo fanatico di calcio che per veder giocare la squadra nazionale a Teheran, decide di affrontare un lungo viaggio, sfuggendo ai parenti e alla scuola; ma la sua poco eroica avventura lo porterà ad un ironico finale: sfinito dal cammino, si addormenterà poco prima dell’inizio della partita in un prato interno allo stadio. Veniamo a conoscere l’odissea del frustrato Ahmad che ha preso per errore il quaderno dei compiti di Mohammad, suo compagno di classe; odissea che si risolverà in una simpatica prova di solidarietà tra i banchi scolastici. Ci imbattiamo in bambini ossessionati dall’eccessiva quantità di compiti assegnati a casa. Tanto che in una toccante inquadratura un bambino cerca di consolare una donna per la morte della figlia, con le parole: “Consolati perché almeno tua figlia non dovrà più fare i compiti a casa, che sono tanti!”. E poi, in una scena memorabile, Hossein innamorato non corrisposto di Tahereh, alla fine del film insegue la ragazza amata nell’uliveto: la macchina da presa li riprende come due puntini che si allontanano nel verde; poi la giovane si ferma, sussurra qualcosa all’orecchio del ragazzo, che all’improvviso torna indietro, correndo all’impazzata; e nessuno saprà mai cosa si son detti. Gli occhi dei bambini fissano lo spettatore, in un certo modo lo provocano, lo contagiano con la loro maliziosa innocenza, interrogano il mondo degli adulti con silenziose domande insistenti. Lo sguardo infantile diventa così il mezzo preferito del regista iraniano per guardare il mondo; la sua visuale privilegiata. “I bambini – confida – sono molto più aperti degli adulti e si comportano in maniera molto più sana di loro. Sono più ricettivi. E dunque si può essere ottimisti per il futuro: grazie a loro, il mondo è più vivibile “. Kiarostami spesso ricorda che “quando si ama qualcuno lo si fotografa “. Egli, soprattutto attraverso gli occhi dei bambini, ci ha regalato sublimi inquadrature di semplice vita quotidiana. Insegnandoci così ad amarla, questa vita, con un po’ più di calore e poesia. ABBAS KIAROSTAMI (22 giugno 1940), laureato alla Facoltà di Belle Arti dell’Università di Teheran, arriva al cinema attraverso la grafica e la pubblicità, fondando l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti (Kanun), dove dirige per molti anni il dipartimento di cinema. Il suo primo cortometraggio, Il pane e il vicolo, è del 1970; il suo esordio nel lungometraggio è del 1974 con Il viaggiatore. Alla fine degli anni Ottanta ottiene riconoscimenti internazionali, contribuendo a far conoscere all’estero il cinema iraniano. Nel 1992, il “Premio Rossellini” alla carriera a Cannes; con Il sapore della ciliegia la “Palma d’Oro” exaequo al Festival di Cannes del 1997; con Il vento ci porterà via il “Gran Premio della Giuria” della Mostra di Venezia del 1999.