Con gli altri carismi a servizio della Chiesa
L’autrice, responsabile delle relazioni con gli altri movimenti della Comunità di Sant’Egidio, testimonia nel terzo intervento della tavola rotonda la collaborazione fra carismi antichi e nuovi che ha permesso alla Comunità di portare a compimento tante iniziative di pace nel mondo. La tensione all’unità, un carisma in più per tutti i carismi se vogliono essere significativi nel mondo di oggi
“La Chiesa si aspetta da voi frutti ‘maturi’ di comunione e di impegno”. Così si rivolgeva ai movimenti e alle nuove comunità Giovanni Paolo II nella Pentecoste del 1998 e concludeva: “il Signore conta su ciascuno di voi, la Chiesa conta su di voi”. Ciascuno era interpellato. Ciascun movimento faceva parte di quel “voi”.
L’età della maturità
Con un’espressione felice, Andrea Riccardi sottolineò come questo invito segnasse per i movimenti laicali di recente formazione il passaggio dall’adolescenza (in cui, egli diceva, si va formando un’identità, con il rischio, talvolta, di un certo “messianismo di gruppo”) all’età della maturità in cui “non si rinuncia alla propria personalità ecclesiale, ma si comprende meglio il dono degli altri carismi e delle altre personalità”[1].
In altre parole, prendeva sempre più corpo quell’intuizione del Concilio, tanto cara a Giovanni Paolo II, di una “Chiesa-comunione o, come spesso diceva il papa, di Chiesa-famiglia, caratterizzata dall’eguale dignità di tutti i battezzati”[2]. È questa la prospettiva per cogliere le autentiche relazioni tra nuovi movimenti di ispirazione laicale, nati in special modo dopo il Concilio Vaticano II, sia tra loro che con le grandi tradizioni religiose espresse nel corso dei secoli dalla vita consacrata.
Questa relazione fu chiara nelle parole dell’allora card. Ratzinger, che in quella stessa occasione disegnò la “collocazione teologica” dei movimenti e nuove comunità, ponendole nella linea di una successione “carismatica” in cui egli inscriveva il movimento monastico, quello di Francesco d’Assisi e altri, affermando che “nella storia i movimenti apostolici appaiono in forme sempre nuove e necessariamente, poiché sono precisamente la risposta dello Spirito Santo alle mutevoli situazioni in cui viene a trovarsi la Chiesa”[3].
Nel Novecento, in un mondo “uscito da Dio”[4], la nuova fioritura di movimenti e comunità si innestava dunque nella linea dei movimenti apostolici carismatici, con la particolare sottolineatura di una nuova responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo, come aveva auspicato il Concilio Vaticano II. Dalla Pentecoste del 1998 è cresciuta la comunione e la fraternità tra esperienze che si rivelano complementari nella loro diversità. Per iniziativa di Andrea Riccardi, di Chiara Lubich e di altri fondatori e responsabili di movimenti e comunità, è iniziato un cammino di comunione. Si sono moltiplicati gli incontri e le iniziative prese in comune, a testimoniare quel dono dello Spirito che è la concordia tra i fratelli: “Vi riconosceranno da come vi amate” (cf. Gv 13, 35).
Questo cammino ha inciso profondamente non solo nella vita, ma anche nella spiritualità delle diverse realtà, contribuendo alla formazione di cristiani maturi, aperti all’altro, capaci di dialogo e di collaborazione. Vorrei soffermarmi brevemente su alcuni dei suoi frutti.
Cerchiamo compagni di strada
Per la Comunità di Sant’Egidio, questo cammino si è innestato in una storia di fraternità ecclesiale che affonda nelle radici stesse della sua vocazione. Nata dopo il Concilio Vaticano II, in una stagione di “primavera” della Chiesa, in cui veniva riscoperta la centralità della Parola di Dio e sottolineata la dimensione assembleare e comunitaria, Sant’Egidio ha scritto nel profondo della sua vocazione la consapevolezza di essere parte del corpo della Chiesa, erede di una tradizione di preghiera, debitrice a tante esperienze di vita nel segno del Vangelo.
“Francesco è un compagno di strada importante, soprattutto perché voleva essere laico, vivendo tra tutti, nell’umiltà, come ‘minore tra i minori’. San Francesco è il Vangelo sine glossa, l’amicizia con i poveri, il dialogo con l’Islam…”. Così Andrea Riccardi parlava delle origini spirituali della Comunità di Sant’Egidio in una conversazione con lo storico francese Dominique Durand[5]. E il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, rispondendo ad un giornalista che gli chiedeva come fa Sant’Egidio a lavorare per la pace, diceva, con un’espressione sintetica ma efficace: “Cerchiamo compagni di strada”.
Lo abbiamo fatto fin dalle origini. L’amicizia con le famiglie religiose inizia fin dai primi anni Settanta. Infatti, proprio quando questa giovane esperienza muoveva i primi passi, furono alcuni superiori di ordini religiosi a offrire, insieme all’amicizia, una comprensione spirituale e profonda. Tra i primi, il card. Carlo Maria Martini, allora professore all’Istituto Biblico, interessato ad un’esperienza che non solo leggeva la Scrittura, ma tentava di metterla in pratica con un’attenzione agli ultimi, che si unì al servizio ai poveri della Comunità, fino alla sua nomina alla diocesi di Milano.
Pregare insieme
Il rapporto tra Sant’Egidio e i religiosi si è poi sviluppato nella preghiera e all’insegna di un forte sostegno reciproco. L’aiuto pastorale e di servizio che è venuto da tanti consacrati ha spesso rafforzato in loro il senso della propria originaria vocazione, così come la conoscenza di esperienze plurisecolari di vita religiosa ha contribuito a definire una nuova e originale identità di laicato cristiano.
Una delle esperienze che caratterizzano di più la Comunità di Sant’Egidio è quella di una preghiera nella città aperta a tutti. Ogni sera nella basilica di Santa Maria in Trastevere e in altri 40 luoghi a Roma, ma in tante parti del mondo, da Cuba alla Costa d’Avorio, pregare insieme allarga il nostro cuore e, allo stesso tempo, aiuta tanti a vivere e a pregare.
La preghiera è l’immagine vera della Comunità. Crediamo alla forza della preghiera, che protegge i cristiani e il mondo. E crediamo che la Chiesa di oggi debba offrire spazi di invocazione nel cuore delle nostre città, e una liturgia bella e eloquente. La liturgia e la preghiera sono una sorgente tanto larga di amore, che consentono un’identità cristiana radicata ma anche un’audacia nel vivere.
La preghiera della Comunità di Sant’Egidio è, ovunque, luogo di accoglienza e di comunione. Tanti membri di famiglie ecclesiali e di movimenti vi prendono parte. Alla preghiera si è unita una dimensione di amicizia, divenuta nel tempo, per molti, una vera e propria fraternità spirituale.
Amore per i poveri
Dalla preghiera è scaturita una fonte di amore per i poveri e i deboli, che rappresenta un pilastro della vita della Comunità di Sant’Egidio. I poveri sono i nostri amici, perché l’amicizia è un tratto fondamentale del servizio ai più poveri. Ma possiamo dire che sono stati anche nostri fratelli e nostri maestri.
Si, maestri di unità. Infatti, sono i poveri a chiederci di essere uniti. La Chiesa famiglia, la Chiesa-comunione è una grande domanda che viene dal mondo dei poveri. Di fronte alla realtà del dolore, al grande mondo dei poveri, ogni autoreferenzialità appare in tutta la sua miseria.
Questo ci è apparso subito chiaro, fin dalle origini della nostra storia. Per questo, nel lavoro con i più poveri, Sant’Egidio ha sempre cercato l’alleanza con altri e con le famiglie religiose: alle nostre mense per i poveri, alle cene itineranti per i senza dimora, al pranzo di Natale si uniscono, ogni giorno da anni, tanti religiosi. Ma il servizio è anche affermazione della giustizia e, quindi, difesa dei poveri. Penso in particolare, negli ultimi anni, agli immigrati e agli zingari.
I tanti religiosi e religiose che partecipano dei nostri sforzi, mostrano come la sinergia di carismi antichi e nuovi rappresentino una risorsa di umanità. La cura dell’Aids in Africa e la battaglia contro la pena di morte
Ci sarebbero tanti esempi, ne farò soltanto due. Il programma DREAM (Drug Resource Enhancement against Aids and Malnutrition)[6] è la risposta che dal 2002 la Comunità di Sant’Egidio sta provando a dare alla terribile piaga dell’Aids in Africa, una tragedia che ha già causato la morte di 40 milioni tra adulti e bambini, praticamente l’eliminazione di più di due generazioni. Un dramma davanti al quale il mondo ha preferito chiudere gli occhi e abbozzare soluzioni evasive, nonostante dall’inizio del nuovo secolo questa pandemia sia contenibile, grazie ai successi della medicina.
L’idea che anche nella cura delle malattie potessero esservi due destini separati tra Nord e Sud del mondo sembrò intollerabile e fu la spinta decisiva che produsse la messa a punto di un progetto di cura ambizioso ed esteso. Il primo paese in cui venne sperimentato fu il Mozambico, ma ben presto ne seguirono altri, mentre gli straordinari risultati scientifici ricevevano sempre maggior attenzione presso i grandi organismi internazionali.
Per realizzare interamente i suoi piani su tutto il continente, Sant’Egidio mai sarebbe stata autosufficiente, con le sue sole risorse. La più grande rete di aiuto disinteressato e di solidarietà gratuita che avrebbe potuto essere utilizzata allo scopo era proprio quella costituita dalle migliaia di esperienze sul campo, ideate e gestite dalle numerosissime congregazioni religiose presenti in Africa.
Oggi, più di dieci istituti di vita consacrata costituiscono, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, il nucleo operativo di un grande programma di cura, che ha ridato la speranza a paesi interi e a centinaia di migliaia di malati. E che ci ha permesso di festeggiare, quest’anno, la nascita di 10000 bambini sani da madri malate. Una grande vittoria della vita.
La battaglia contro la pena di morte. Quando, alla vigilia del Giubileo del 2000, la Comunità di Sant’Egidio lanciò una campagna per promuovere una moratoria mondiale delle esecuzioni, sembrava un sogno. E lo era. A questo sogno si sono uniti il Movimento dei Focolari, il Rinnovamento nello Spirito, altri movimenti, alcune congregazioni.
Una poderosa raccolta di firme ha permesso di raccoglierne, in pochi anni, più di 5 milioni. Nel dicembre 2007, quelle firme hanno pesato sulla decisione dell’Assemblea Generale dell’ONU di approvare una moratoria mondiale delle esecuzioni. Un’altra grande vittoria della cultura della vita: l’unità dei carismi cristiani può cambiare il mondo.
Uniti in un mondo che si divide
In conclusione, vorrei fare una considerazione: viviamo in un tempo e in un mondo frammentati e dispersi. La globalizzazione, se ci ha reso tutti più informati (in tempo reale) di ciò che accade in ogni angolo della terra, ha però diffuso una sorta di sorda indifferenza, e ha dato luogo a fenomeni identitari anche aggressivi e violenti, fino ai conflitti legati alle identità etniche e religiose.
Non a caso si è parlato, anche riferendosi al fenomeno delle comunità virtuali, legate allo sviluppo delle nuove tecnologie, di “morte del prossimo”[7]. È un fenomeno planetario, che investe in particolare le giovani generazioni. Con un’immagine efficace, il rabbino di Gerusalemme David Rosen, nel recente incontro di preghiera per la pace tra le religioni – nello spirito di Assisi – della Comunità di Sant’Egidio a Barcellona, diceva: “Hai 500 amici su Facebook, ma poi non vai d’accordo con il vicino di casa”. Un problema che ci interroga profondamente. Vediamo come questa umanità di solitudini con facilità ceda a esplosioni di violenza, come quella che a Roma, pochi giorni fa, ha portato all’uccisione, per un motivo banalissimo, di una donna rumena.
La sfida, o forse sarebbe meglio dire, la missione che ci è affidata, laici e consacrati, movimenti, nuove comunità, antiche e nuove forme di vita religiosa, è quella di essere prossimi in un mondo di soli, spaventati e aggressivi.
Nel cuore di tutti i carismi che hanno generato i movimenti, le comunità, le famiglie religiose, c’è una profonda e radicale contestazione a questa paura che divide. Al contrario c’è un anelito universale – cattolico – scritto nel cuore di ogni nostra realtà. La diffusione planetaria delle famiglie religiose, come dei movimenti laicali, crea della comunità (non virtuali, ma reali) che superano la dimensione locale e nazionale. Se sono di Sant’Egidio, non sono prima di tutto o soltanto africano, italiano, cinese. Appartengo a una famiglia più larga, che forgia la mia identità, rendendola più aperta, più “cattolica” in senso pieno. Questo avviene in ognuno dei nostri movimenti e delle nostre famiglie religiose.
Antichi e nuovi carismi hanno in comune questo senso della cattolicità, dell’universalità della Chiesa, che come diceva già la Lettera a Diogneto, fa sì che per i cristiani “ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera”.
In un tempo di particolarismi e di accentuazioni identitarie, che provocano spesso conflitti, “l’esperienza dei movimenti, come altre nella storia della Chiesa, mostra in maniera evidente che la fede e la vita ecclesiale rendono il cristiano un cittadino del mondo, grande e contraddittorio, e un fratello di tanti fratelli”[8].
È questo anche il segno di una missione, da vivere oggi insieme: testimoniare quella che un grande papa del Novecento, Paolo VI, chiamava “l’unità della famiglia umana”. Nella preghiera, nella sollecitudine verso i poveri, nell’apertura al diverso, al migrante, nella promozione del dialogo e nella costruzione della pace.Un’alleanza per rispondere alle sfide del mondo di oggi. Questo credo sia il senso del nostro incontro di oggi. Questo il contributo che la Comunità di Sant’Egidio vuole offrire, con gli altri carismi, a servizio della Chiesa.
[1] Cf. Pontificio Consiglio per i Laici, I movimenti nella Chiesa, Città del Vaticano 1999, p. 185.
[2] S. Dziwisz, Una vita con Karol, Rizzoli, Milano 2007, p. 140.
[3] I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica in I movimenti nella Chiesa, cit., p. 46.
[4] L’espressione è dello storico francese Emile Poulat
[5] A. Riccardi, colloquio con J.D. Durand, Sant’Egidio, Roma, il mondo, Edizoni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 10.
[6] Per una completa illustrazione del programma DREAM e dei suoi risultati, cf. www.santegidio.org.
[7] L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.
[8] Cf. I movimenti nella Chiesa, cit., p. 184.