Comunicare “come”, comunicare “perché”

Credibilità, responsabilità, condivisione, coscienza. Intervista a Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la comunicazione
Paolo Ruffini con il papa

A un anno dalla sua nomina a prefetto del dicastero vaticano per la comunicazione, che bilancio fa? Quali sono le sfide principali con cui si confronta ogni giorno?
In quest’anno abbiamo fatto tante cose, alcune ancora imperfette perché sia la riforma della curia, sia il mondo della comunicazione sono in evoluzione veloce. La cosa di cui sono più contento, dopo qualche fraintendimento iniziale, è aver puntato a ricostruire un clima sereno, di servizio e di condivisione, dentro il dicastero, fra dicastero e curia, fra dicastero e Chiesa. Non come una centrale che elabora tutto, ma come una rete a disposizione della Chiesa. Dobbiamo comunque migliorare in creatività, credibilità, velocità e approfondimento.
Dobbiamo comunicare di più il “senso”, l’essenza del magistero, del papato, della Chiesa; dare il messaggio evangelico a un mondo che rischia di perdere il gusto di ciò che unisce. Questo sforzo deve essere costante. Dobbiamo essere credibili, come un seme, e poi lasciare che le cose germoglino.

Come essere responsabili gli uni degli altri anche nella Rete?
C’è un paradosso nella società contemporanea: siamo così connessi e così soli. È come se non riuscissimo a far scattare la comunicazione vera, per cui la connessione è sterile. Il papa suggerisce una cosa semplice: usate (e a volte anche non usate) questi mezzi per incontrarvi, per guardarvi negli occhi, anche per litigare a volte. E poi fare pace. Usate i doni che avete a disposizione: la parola e i gesti. Tutto il male che mettiamo in comune genererà male, mentre il bene genererà bene. In passato la comunicazione era affidata solo ad alcuni, adesso siamo tutti in Rete, chi più chi meno, e quindi abbiamo tutti una responsabilità. Ognuno deve essere consapevole della potenza di quello che sta comunicando, dell’importanza che quello che dice sia vero, del male che può fare anche senza rendersene conto. Dovremmo fare tutti una specie di giuramento di Ippocrate su come comunichiamo: non solo i professionisti, ma anche chi lo fa per diletto, perché può influenzare gli altri.

Lei coordina giornale, tv, social, sito web, editrice, sala stampa. Cosa è prioritario?
Penso che sia sbagliato ritenere un mezzo più importante degli altri. Quello che deve guidare il dicastero non è lo strumento, ma il “senso” di quello che si vuole comunicare. Lì, quindi, bisogna sforzarsi di mettere creatività, passione, impegno, verità. C’è poi molto da dire anche sul delegare: non penso che il modo migliore per guidare un ambiente complesso come questo sia l’accentramento. Serve invece condividere un’idea, nel nostro caso una fede e dei valori. La vera delega è confronto continuo. Quindi la mia priorità è questa: come possiamo essere pieni di significato per il mondo di oggi? Poi per i vari media del gruppo lascio che la creatività (lo Spirito per noi che ci crediamo) faccia il suo cammino. Senza mai però perdere il “senso”, il “perché” del mio lavoro, anche perché le cose cambiano in continuazione. L’aspetto pastorale e teologico aiuta a interpretare la notizia; se c’è quello, le cose funzionano. L’alibi perfetto invece è dire che non riusciamo perché ci sono problemi tecnici.

Da anni lei lavora ai livelli più alti della comunicazione, con Rai, La7, Tv2000. Nel definire le strategie magari non sempre va d’accordo col suo editore. Quanto è giusto venire a patti con la propria coscienza quando il capo obbliga a fare certe cose?
Con la coscienza non bisogna mai venire a patti. Altra cosa è sapere che vivo in un mondo che non è a immagine mia o delle cose in cui credo. Per cui, se vado a fare il missionario in un Paese dove la cultura è diversa dalla mia, non sto perdendo la mia identità, né vengo a patti con la coscienza. La offro invece all’incontro con l’altro, al dialogo, cercando di rimanere me stesso. Poi serve anche l’umiltà di sapere che non sono il comandante del mondo. Naturalmente, come tutti, commetto errori di valutazione, sbaglio, sono imperfetto, ma senza venire a patti con la coscienza. Se un editore mi chiede di fare una cosa nella quale non credo, non la faccio. Ho avuto una vita professionale particolare, con responsabilità molto al di là dei miei meriti, delle mie attese e della mia pianificazione, ma ho sperimentato che, se uno vuole, può sempre dire di no. Senza costruirsi alibi. Poi è chiaro che si può anche scendere da quel treno e andarsene altrove. Non serve nemmeno così tanto eroismo, penso sia nella normalità delle cose.

L’intervista completa è inserita nel dossier “Comunità”, allegato al numero di luglio 2019 di Città Nuova.

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