Comunicare attraverso una vecchia bicicletta
Udiamo il cigolio di una vecchia bicicletta arrugginita che rimanda a suoni di un passato arcaico, a litanie di antiche vie, a ricordi recuperati dalla memoria del racconto. Giunge da lontano, condotta a mano da un vagabondo che arriva da un uscio portandosi nell’interno di una sala da barba. Qui c’è un uomo dal volto luttuoso, alienato dal mondo degli uomini, piantato in una sedia, immerso in pensieri gravi che si consumano nella mente, scanditi da un senso di attesa. I due sembrano conoscersi, legati da vecchia amicizia. Si ritrovano in quel luogo desolato e spoglio, dove ogni ferro del mestiere ha conosciuto l’usura del tempo.
Oggetti che, abbandonati dopo la lunga chiusura del locale, conservano ancora memorie indicibili di fatti lì avvenuti. Emergeranno pian piano, per doloroso svelamento, nel dialogo tra i due individui. Dialogo che in realtà è, principalmente, soliloquio del vagabondo, tentativo disperato di esprimersi, di trovare finalmente attenzione e ascolto in quel barbiere che replica a monosillabi, con risposte lapidarie, rivelando insofferenza e rifiuto dell’altro. Eppure entrambi sono bisognosi di reciprocità, nella disperata urgenza di comunicazione e condivisione umana.
Protagonisti di “Ferrovecchio” – spettacolo vincitore del premio della giuria popolare CTE, e menzione speciale della critica al Premio Dante Cappelletti 2010 – sono, lo stesso autore, Rino Marino, e Fabrizio Ferracane. La fragilità della mente del vagabondo contrasta con la fredda razionalità del barbiere. L’incespicare fisico e delle parole dell’uno urta con la distaccata lucidità dell’altro. Siamo in una Sicilia arcaica, una terra di nessuno in un tempo che sembra cristallizzato, dove due individui ai margini della società scontano un disagio esistenziale di solitudine che, però, s’apre a barlumi di solidarietà.
Il testo messo in scena da Marino vira dal drammatico al comico in un’alternanza di ritmi serrati e dilatazioni temporali. Muovendosi tra l’”assurda” comicità e al senso di catastrofe e smarrimento di Beckett, assieme al disagio e alla forte sensazione di incertezza e timore di Pinter, il testo – al quale gioverebbe un buon taglio per acquisire una maggiore tensione – offre ai due interpreti un fertile terreno per una grande prova attoriale.
Recitato in dialetto è soprattutto Ferracane, il demente vagabondo, che snocciola un siciliano anche divertente, che diventa linguaggio universale, comprensibile al di là dialetto. Accompagnato dalla gestualità tipica del Sud svela tra le pieghe, retaggi umani restituiti con struggente poesia. E quella carcassa di bicicletta, con tutto il suo fascino oggettuale e concettuale, ne diventa l’emblema.
“Ferrovecchio”, di Rino Marino. Compagnia Sukakaifa – TetrUsica. Alla Sala Uno di Roma, fino al 12 febbraio.