Comprendere il Ddl Zan: cosa prevedono gli articoli 5 e 6
Anzitutto debbo ringraziare tutti coloro che hanno fatto pervenire le diverse (quanto preziose) considerazioni in ordine ai precedenti approfondimenti relativi ai primi quattro articoli del Ddl Zan; si tratta di una materia molto delicata, per certi versi estremamente tecnica, quindi non di facile divulgazione.
Venendo all’art.5 del Ddl Zan (DDL S. 2005 (senato.it)), esso ha l’obiettivo di assicurare che l’autore dei delitti puniti dall’art.604-bis del Codice penale (o da un reato aggravato dalla circostanza di cui all’art.604-ter del Codice penale), svolga una attività non retribuita in favore della collettività o meglio, più precisamente, di una categoria di soggetti alla quale appartiene la persona offesa dal reato in questione.
Andando al cuore della norma qui in esame, l’art.5 introduce una sorta di scelta obbligata per l’eventuale persona condannata che, al fine di poter accedere al beneficio della sospensione della pena (beneficio di cui all’art. 163 del Codice penale), di fatto sarà costretta ad optare per lo svolgimento dell’attività non retribuita nei confronti di associazioni LGBTQI.
Permangono diverse perplessità in ordine a questo utilizzo della pena come una sorta di strumento culturale “forzato”; in effetti, così come congegnato, l’impianto strutturale ( e procedurale) di questa norma del Ddl Zan, crea un sostanziale obbligo per il condannato (in materia di reati di discriminazione o violenza in materia di sesso, di genere, orientamento sessuale o identità di genere) a lavorare gratuitamente per le sopra dette associazioni alle quali appartiene la persona vittima del reato.
Facendo un rapido confronto con i delitti di sfondo sessuale o nei confronti di persone vulnerabili, la condizione che viene posta dall’art.165 comma 5 del Codice penale è rappresentata dalla partecipazione del condannato a dei percorsi di recupero che sono pensati da una parte) a beneficio della stessa rieducazione del condannato, ma (dall’altra) anche al fine del giudizio prognostico (a cura del giudice), una volta terminati questi percorsi rieducativi.
In caso di furto aggravato, inoltre (pensiamo al furto in abitazione oppure al furto cosiddetto con strappo), il beneficio della sospensione condizionale della pena è subordinato al pagamento integrale (da parte dell’autore del reato) del risarcimento del danno alla persona che è stata offesa da detti reati.
Il Ddl Zan introduce concretamente (con questo art.5), uno strumento penale così incisivo non solo sugli impulsi motivazionali dell’autore del reato, ma anche sulla sua stessa opinione (ecco perché si è parlato di reato d’opinione) in ordine ai comportamenti che hanno a che fare con la moralità e la sessualità, in netto contrasto con i principi fondamentali rappresentati dalla libertà di pensiero e di coscienza e della funzione rieducativa della pena (sotto questo ultimo profilo, mi sia consentito, non è assolutamente chiaro quale sia il reale fine rieducativo proposto dal Ddl Zan).
Il consigliere di Cassazione Alfredo Mantovano, nel testo Legge omofobia perché non va ( 2021, Ed. Cantagalli), sottolinea il fatto che l’art.5 del Ddl Zan (in particolare il comma 1, lett. a) n 3.2), “si ispiri vistosamente ad un modello di diritto penale d’autore” dove il disvalore del fatto tipico punito è incentrato sui motivi che portano al compimento di una azione (altrimenti lecita), ma “anche le modalità di esecuzione della pena devono tener conto delle ragioni della condotta“.
La teoria della colpa d’autore (legata quindi alla mera personalità del soggetto, al suo modo di essere) non può stare alla base di un diritto penale di una società cd civile: un giudice non può avere la capacità (sovraumana) di cogliere l’uomo concreto nella sua globalità (e quindi anche nella sua parte più intima e interiore); ed ancora, uno Stato non può perseguire un individuo per la sua malvagità se, questa condotta malvagia, non ha causato delle condotte (e dei fatti) criminali.
Passando ora all’art.6 del Ddl Zan ( DDL S. 2005 (senato.it)), esso prevede la modifica dell’art.90-quater, comma 1 secondo periodo, del Codice di procedura penale (norma che definisce la figura della cd vittima vulnerabile), con l’aggiunta, dopo “odio razziale”, delle parole “o fondato sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.
Si pone il problema (da parte della polizia giudiziaria, del pubblico ministero nonché del giudice), di porre in essere una responsabile individuazione dei soggetti che effettivamente si trovano di in condizioni di fragilità e di particolare vulnerabilità, soprattutto sotto il profilo che riguarda i contenuti specifici del Ddl Zan e cioè il sesso, l’orientamento sessuale, il genere e l’identità di genere. Questo status di vulnerabilità (conseguente ad una valutazione individuale sul soggetto della vittima) rischia di divenire una sorta di caratteristica oggettiva (un vero e proprio elemento costitutivo del reato in questione), con invitabile disequilibrio processuale tra la persona (presunta) offesa dal reato e l’imputato (presunto) autore del reato, soprattutto in un’area così tortuosa e indecifrabile quale è quella dei crimini commessi su movente d’odio.
In sostanza, con l’introduzione dell’art.6 del Ddl Zan, si incorre nel (probabilissimo) rischio di far desumere l’esigenza di protezione della vittima da caratteristiche specifiche (di questa ultima) anziché accertarla, in concreto, di volta in volta, a prescindere da quei caratteri che qualificano una particolare situazione di vittimizzazione (per un approfondimento, si veda L. Brunelli, Tutela della vulnerabilità delle persone offese, in Ars Iuris, Rivista on line Unità per la Costituzione, 32019).
Ritengo che la vulnerabilità della vittima (persona offesa dal reato), rappresenti una situazione soggettiva (più che oggettiva), certamente meritevole di adeguata tutela, ma che necessita di una preliminare verifica (ed effettivo accertamento), attraverso gli strumenti che il processo penale mette già a disposizione, a prescindere dal Ddl Zan.
Concludendo, gli articoli 5 e 6 del Ddl Zan, presentano diversi profili di incostituzionalità, sia per quanto concerne i principi fondamentali rappresentati dalla libertà di pensiero e di coscienza nonché quello relativo alla funzione rieducativa della pena, sia in riferimento ai necessari equilibri che devono sussistere tra le parti (accusa e difesa) nel “giusto processo”, pur salvaguardando (e proteggendo, se necessario) l’accertata particolare vulnerabilità della vittima.
Sull’argomento leggi gli articoli articoli precedenti nel Focus sul Ddl Zan