Competizione, invidia, cooperazione
La competizione, nella cultura aziendale nell’ultimo ventennio, ha perso l’aspetto collaborativo assumendo una connotazione totalmente negativa che implica lo “schiacciare” l’avversario o il competitor. In ambito prettamente sportivo la spinta agonistica, della competizione, assume varie sfaccettature. In termini sani stimola a superare i limiti, alimenta il processo di crescita, in altri, viene estremizzata come nei casi di doping. Il termine competizione è utilizzato in diversi contesti, c’è chi la esalta dandogli un valore positivo, chi la demonizza come causa di tanti mali. In modo particolare, la ritroviamo in ambito sportivo, economico e aziendale, ma spesso mi viene raccontata anche tra persone senza che abbiano uno specifico comune campo da gioco.
Quella su cui mi piacerebbe riflettere è la competizione spontanea, nata nel confronto tra un “me” e un’altra persona che ha delle caratteristiche o degli obiettivi simili. Quella che inesorabilmente declina in invidia, oppure, in altre circostanze si trasforma in ammirazione.
Se facciamo delle semplici ricerche vediamo che “competere” vuol dire «lotta, contrasto fra persone o gruppi che cercano di superarsi, di conquistare un primato» (www.treccani.it). Facendo riferimento al significato etimologico della parola, deriva dal latino con- e petere che significa «chiedere, andare insieme, convergere verso un medesimo punto».
Allora, perché la competizione spesso ci determina sofferenza e in molti contesti complica le relazioni tra le persone?
Ciascun individuo ha il desiderio di provare soddisfazione per ciò che sa fare, di essere riconosciuto nel proprio valore. Il confronto con l’altro gli permette di mettersi in gioco, di capire dove si trova e quante altre cose potrebbe fare o imparare. Mi è capitato di osservare delle competizioni dove non ci sono obiettivi condivisi, ma si percorrono delle strade simili. Si guarda all’altro pensando ai risultati che ha raggiunto e si fa un confronto con i propri risultati. Questo può essere da stimolo, ma alle volte diventa un carico pesante, «un non essere mai abbastanza», un non sentirsi alla pari degli altri o di quell’altro molto “capace”. Tutto ciò genera frustrazione e invidia. In queste situazioni il nostro pensiero risponde in vario modo, ci creiamo delle idee attorno a questo sentirci “più o meno” degli altri e alla base ci sono delle insicurezze che partecipano a questa valutazione. L’invidia esordisce quando non pensiamo di avere le stesse risorse dell’altro: «Per noi quel risultato sarà impossibile». Se abbiamo la percezione di perdere la competizione, in alcuni momenti l’altro può essere percepito quasi come un nemico. Al contrario se accettiamo la diversità dell’altro come una forza possiamo scorgere la meraviglia di un suo talento, oppure, possiamo pensare di raggiungere dei risultati o acquisire delle capacità seppur diverse o in tempi diversi. In quest’ultimo caso il sentimento che ne deriva sarà di gioia e speranza verso la crescita futura.
Quando entriamo in un paragone non possiamo porre l’accento solo sul risultato senza guardare il percorso, non possiamo confrontarci con gli altri senza guardare la nostra storia, il nostro bagaglio, la nostra condizione, le scelte che abbiamo fatto e che influiscono e influiranno sul processo.
Ognuno di noi ha una bellezza diversa che se entra in competizione, come fossimo dei modellini automatici, perde valore. Il gioco competitivo diventa funzionale e funzionante se spinge al rilancio, se nella bravura dell’altro siamo capaci di provare ammirazione.
Nei casi più virtuosi si fa la scoperta che mettendo insieme le diverse “bellezze” si creano sinergie e quando nascono sinergie, ci troviamo nella strada che va dalla competizione alla cooperazione.